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Reddito di cittadinanza: perché è necessario riformare le politiche attive del lavoro

Il reddito di cittadinanza non ha prodotto gli effetti sperati dal legislatore. Da strumento di sostegno transitorio si è trasformato in sussidio puro per carenza delle politiche attive e, in alcuni settori caratterizzati dalla stagionalità e da un livello di professionalità più bassa, anche in un disincentivo al lavoro. Ma la domanda se il reddito di cittadinanza vada abolito o modificato è mal posta. Il punto di partenza per ogni ipotesi di riforma dovrebbe essere infatti non il sostegno al reddito ma le politiche attive del lavoro, rispetto alle quali il reddito di cittadinanza è una conseguenza. Una “rivoluzione” possibile?

Questo editoriale non vuole avere nessuna pretesa di definitività ma nasce dall’osservazione del reale ed intende evidenziare - a distanza di alcuni anni dalla sua introduzione - alcune distorsioni del mercato del lavoro prodotte dal reddito di cittadinanza che rendono lo strumento contrario alle ragioni stesse della sua introduzione. Se astrattamente ci si chiedesse se possono essere condivisibili – così come confermato dallo stesso Premier nella conferenza stampa che ha preceduto la pausa estiva - le motivazioni che avevano presieduto all’introduzione del reddito di cittadinanza la risposta non potrebbe essere che affermativa. In sé stesso il reddito di cittadinanza rappresenta senza dubbio uno strumento di civiltà e di sostegno al reddito dei cittadini nella fase transitoria fra un impiego e l’altro. Un ordinamento che non preveda meccanismi analoghi non sarebbe in linea coi tempi. Ciononostante, è abbastanza evidente che al di là delle buone ragioni che potevano presiedere all’introduzione di questo istituto, la fase applicativa ha dimostrato che gli obiettivi perseguiti non sono stati ottenuti, ed anzi per alcune fasce di lavoratori si ha avuto l’effetto distorsivo del disincentivo al lavoro che rappresenta l’esatto contrario dell’idea che presiede al sostegno. Il tema non è tanto quello che si paventava come critico al momento dell’introduzione della norma, ovvero quello per cui alcuni soggetti hanno percepito il reddito di cittadinanza pur non avendone diritto. Da questo punto di vista gli organi di controllo hanno dimostrato, nel tempo, di saper compiere le opportune verifiche. Il grande tema, del tutto carente nella narrazione del reddito di cittadinanza, è quello della capacità del sistema di collocamento di essere strumento efficiente per la collocazione degli inoccupati e percettori del sussidio. In altre esperienze in ambito comunitario gli strumenti di sostegno al reddito sovrapponibili a quella del reddito di cittadinanza hanno avuto successo solo laddove il sistema è stato in condizione di gestire le politiche attive in modo efficiente. Il successo del sussidio rispetto alle premesse si è avuto quando i sistemi di politiche attive sono stati in grado di limitare temporalmente le fasi di transizione fra un rapporto di lavoro e l’altro e creare percorsi di riqualificazione che hanno generato una catena di valore da reimmettere nel mercato del lavoro. Nel nostro paese è avvenuto esattamente il percorso opposto ovvero si è introdotto uno strumento di sostegno al reddito non accompagnato da un adeguato sistema di politiche attive. Esemplificativo in questo senso l’esperienza dei navigator. I dati del febbraio 2021 dicono che circa 3 mila navigator hanno svolto, nel periodo da settembre 2019 a dicembre 2020, una media di un colloquio al giorno; su una platea di circa un milione trecentocinquantamila percettori del reddito di cittadinanza, soltanto 350 mila hanno avuto un rapporto di lavoro di cui la maggior parte – circa il 65% - a termine e di questi il 70% inferiore ai sei mesi. Questi ultimi dati andranno ulteriormente epurati di una quota non definita di lavoratori che avrebbero comunque sottoscritto un contratto di lavoro a prescindere dall’intervento di questa figura professionale. In questo quadro appare del tutto evidente come il reddito di cittadinanza così come è stato implementato non ha prodotto gli effetti sperati nel senso che da strumento di sostegno transitorio si è trasformato sussidio puro per carenza delle politiche attive. Ma vi è di più, in alcuni settori caratterizzati dalla stagionalità e da un livello di professionalità più bassa si sta registrando un meccanismo perverso per cui il percepimento del reddito di cittadinanza è diventato un deterrente al lavoro subordinato regolare. In altre parole, vi sono settori in cui vi è un’alta richiesta di lavoratori anche per periodi limitati di tempo ma non si incontrano domanda ed offerta perché i percettori del reddito scelgono il non lavoro o, ancor peggio, il lavoro nero pur di mantenere il sussidio o incrementarlo. L’osservazione del mondo reale ha portato a verificare che a fronte di offerte di lavoro queste fossero rifiutate sul presupposto per cui il sussidio è “più conveniente e comodo” di un lavoro regolare. Ovviamente quelle appena descritte paiono essere delle estremizzazioni e, probabilmente lo sono, ma la sola circostanza che vi sia una possibilità come quella descritta determina che il sistema ha fallito. Come detto nell’incipit di questo intervento, affrontare la tematica del reddito di cittadinanza non ha tanto lo scopo di determinare se concettualmente sia uno strumento corretto nel sistema ma se l’architettura che ad esso presiede è aderente all’obbiettivo o meno. Nel caso di specie non lo è. Quando si domanda alla politica se il reddito di cittadinanza vada abolito o modificato, la domanda è, ad avviso di chi scrive, mal posta, infatti, il punto di partenza dovrebbe essere non il sostegno al reddito ma le politiche attive del lavoro, rispetto alle quali il reddito di cittadinanza è una conseguenza. In altre parole, contrariamente a quanto avvenuto nel nostro paese, prima si dovrebbe riformare il meccanismo delle politiche attive per renderlo efficiente e soltanto dopo modellare il sussidio. Sotto questo profilo, tanto si è in grado di implementare politiche attive efficaci ed in grado di creare catene di valore; tanto il reddito di cittadinanza sarà quello strumento di sostegno nelle fasi transitorie della vita del lavoratore non in concorrenza con il lavoro. Per semplificare, non vi dovrà essere l’espressione “non lavoro perché è più conveniente il sussidio” ma “prendo il reddito di cittadinanza solo per lo stretto necessario ad avere un lavoro migliore e più remunerativo”. Solo questo modo di interpretare il sussidio lo renderà coerente con le intenzioni ma tutto ciò è impensabile senza una importante riforma delle politiche attive. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/pensioni/quotidiano/2021/09/04/reddito-cittadinanza-necessario-riformare-politiche-attive-lavoro

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