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Archivio newsSegreto industriale, trasparenza degli algoritmi e diritto dei lavoratori: una sfida aperta?
Fino a che punto il segreto commerciale e industriale può legittimamente comprimere il diritto all'informazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti? La tenzone nel diritto del lavoro si gioca su un terreno in cui si scontrano la libertà dell’iniziativa economica e i diritti alla dignità, libertà e autodeterminazione della persona. La Corte di giustizia dell’Unione europea segna un punto fermo imprescindibile in questo delicato dibattito: ha ribadito che la trasparenza algoritmica è un diritto fondamentale e riconosciuto e che il segreto commerciale, se debitamente provato e delimitato, può costituire un limite legittimo, purché l’accesso a informazioni sensibili e segrete sia comunque garantito attraverso l’intervento delle autorità competenti, chiamate a un rigoroso bilanciamento tra diritti fondamentali e interessi economici. Risulta evidente l’urgenza di un intervento legislativo coerente e armonico nel nostro ordinamento. Una soluzione c’è!
Il problema di stabilire quali informazioni aziendali siano segrete si pone frequentemente in relazione all’esercizio del diritto di accesso al codice sorgente dell’algoritmo.
In ambito giuslavoristico, la questione emerge non solo in occasione di richieste da parte dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali di accesso al codice sorgente dell’algoritmo, il cui disvelamento permette di ricostruirne la logica in modo univoco, giacché soltanto il linguaggio informatico è davvero in grado di rivelarne il funzionamento (si vedano le osservazioni del Giudice del Tar Lazio del 21.3.2017 n. 3742, pronunciatosi nel noto caso relativo all’accesso civico al codice del sistema automatizzato impiegato dal Ministero dell’Istruzione per decidere i trasferimenti territoriali degli insegnanti, secondo cui la presa visione di un documento che descriva, con parole dei consulenti dell’azienda, il funzionamento dell’algoritmo che resta pur sempre un atto di parte non è equipollente alla conoscenza del codice sorgente).
Dall’altro lato, la definizione di segreto giuridicamente tutelabile è un tema caldo nel contenzioso relativo ai diritti d'informazione sindacale preventivi rispetto alle scelte strategiche dell'impresa, come decentramenti, scorpori o delocalizzazioni, dove talvolta l’impresa rimasta reticente punta a difendersi, sostenendo che la pubblicizzazione delle notizie strategiche potrebbe far crollare il valore del titolo in borsa o compromettere i rapporti con altre società del gruppo.
La sfida, allora, sta tutta nel comprendere fino a che punto il segreto commerciale e industriale possa legittimamente comprimere il diritto all'informazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti. La tenzone, come sempre nel diritto del lavoro, si gioca su un terreno in cui si scontrano la libertà dell’iniziativa economica e i diritti alla dignità, libertà e autodeterminazione della persona.
Diviene allora davvero rilevante definire che cosa si intenda giuridicamente per segreto. Concettualmente, si possono enucleare due accezioni di segreto nell’ordinamento giuridico: da un lato, infatti, rientra nell’obbligo di segreto in senso lato ogni ipotesi di divieto legale di divulgare notizie aziendali riservate, già trasmesse al lavoratore o al suo rappresentante; dall’altro, il segreto in senso stretto corrisponde alla facoltà riconosciuta in determinate ipotesi dal legislatore all’impresa di mantenere segrete determinate informazioni, sottraendole al pubblico dominio (ius tacendi).
Si badi bene che la protezione giuridica dello ius tacendi non è indiscriminata, ma legata alla concretizzazione di elementi strettamente individuati dalla legge. Ciò perché il diritto alla secretazione di determinate informazioni si pone come eccezione al principio della libera circolazione delle stesse e la sua indiscriminata protezione rischierebbe di ostacolare o ritardare il progresso della conoscenza scientifica generale, oltreché frenare il miglioramento della condizione di comunità che potrebbero servirsi di quelle notizie per migliorare la democraticità dei processi interni.
La tutela giuridica del segreto allora non può essere accordata dal giudice di volta in volta sulla base della sua sensibilità, né può derivare dalla mera volontà aziendale di secretare le informazioni; devono piuttosto sussistere determinati requisiti costitutivi per tacere al pubblico dominio determinate informazioni.
Esattamente, in quali ipotesi ricorrono i presupposti della segretezza in senso stretto? Il «segreto industriale e commerciale» deve ricondursi, anche in ambito giuslavoristico, all’unitaria fattispecie di segreto, disciplinata dagli artt. 98 e 99 c.p.i., mod. da Direttiva 943/2016/UE cd. Trade secrets, di armonizzazione della materia nella legislazione degli Stati membri.
Brevemente, le informazioni costituiscono un segreto industriale se:
a) non sono generalmente note né facilmente accessibili agli operatori del settore;
b) hanno valore economico, fornendo un vantaggio competitivo (si guarda cioè al posizionamento dell’impresa e non a un valore di scambio di difficile determinazione);
c) sono protette dal detentore con misure ragionevolmente adeguate (misure fisiche: cassette di sicurezza in ambienti ad accesso limitato; misure digitali: database con livelli di accesso differenziati attraverso permessi di lettura).
Il detentore del segreto, su cui ricade l’onere di provare tali requisiti, ha il diritto di «vietare a terzi di acquisire, rivelare a terzi o utilizzare, in modo abusivo tali segreti».
L’appropriazione illecita di segreti, nella logica industrialista, dà diritto al detentore non solo al risarcimento del danno, ma ad esperire azioni che inibiscano a chi è venuto in possesso illecitamente delle informazioni segrete di farne uso per «produrre, offrire commercializzare merci costituenti violazione» (art. 99, c. 1ter, c.p.i.). Se ne ricava che la ratio legis è interamente rivolta ad impedire la distorsione della dinamica concorrenziale tra imprese.
V’è però da chiedersi se tale disciplina possa ostacolare l’acquisizione lecita delle notizie utili all’esercizio dei diritti fondamentali.
Va subito messo in rilievo che l’art. 3 della succitata Direttiva Trade secrets disciplina espressamente la fattispecie della acquisizione, utilizzo e divulgazione leciti dei segreti commerciali in ambito lavoristico.
La norma, infatti, delimita l’ambito di applicazione della Direttiva, avvertendo il legislatore di ciascuno Stato membro che, in ogni caso, la disciplina nazionale dovrà considerare «lecita» l’acquisizione di informazioni, che abbiano i caratteri del segreto commerciale, quando siano ottenute con determinate modalità tassativamente indicate dalla norma, tra cui è espressamente prevista, alla lett. c), l’ipotesi dell’esercizio del diritto all’informazione e alla consultazione da parte di lavoratori o rappresentanti dei lavoratori in conformità del diritto e delle prassi nazionali e dell’Unione europea.
Tale disposizione non è mai stata trasposta in una legge di recepimento nazionale, ma si può essere concordi con la dottrina che la ritiene norma di applicazione necessaria, con la conseguenza che sia il decreto di attuazione della Direttiva (l’art. 4, d.lgs. n. 63/2018) sia la disposizione attuata, l’art. 99 c.p.i., dovrebbero essere integrate sul punto, in via interpretativa dal giudice.
Del resto, la norma non solo è rafforzata dal GDPR - che espressamente prevede che la tutela del segreto non dovrebbe condurre a un diniego a fornire all’interessato tutte le informazioni dovute in quanto «significative», posto che limitazioni ai diritti alla protezione dei dati personali devono essere proporzionate a quanto strettamente necessario alla tutela dell’interesse che ne giustifica il limite stesso (art. 23) -, ma soprattutto non fa che esprimere il principio logico della prevalenza dei diritti fondamentali, quali l’esercizio della libertà sindacale, del diritto alla difesa in giudizio o della sicurezza e dignità umana sull’interesse dell’impresa al segreto in senso stretto. In altri termini, siccome né lavoratori né rappresentanti sindacali sono imprese animate dall’interesse lucrativo e anticoncorrenziale a impiegare illecitamente le informazioni segrete, è ragionevole presumere che il diritto d’accesso (che comprende secondo il Tar Lazio, 21.3.2017 n. 3742 l’estrazione di copia dei codici del sistema) sia realizzato per un uso conforme allo scopo per cui l’istanza è presentata, e cioè l’esercizio dei diritti menzionati e non per copiare o rivendere il codice sorgente.
Caso per caso, l’impresa (e il giudice successivamente) dovrà, quindi, accertare che l’istanza di accesso sia sorretta da un interesse qualificato e concreto che risulterà normalmente dal legame che essi instaurano (il rapporto di lavoro o la rappresentanza) con l’organizzazione che si avvale a fini gestionali o decisionali del sistema di IA o con l’algoritmo del quale si domanda la conoscenza dell’architettura tecnica. L’interesse e la finalità di accesso finiranno per perimetrare e vincolare anche l’impiego che di quelle informazioni possono legittimamente fare gli istanti.
Va da sé che l’impresa, una volta permesso l’accesso, si debba tutelare con strumenti di protezione delle informazioni riservate già noti alla prassi, rafforzando per esempio il proprio diritto al segreto altrui su notizie ricevute.
Noncurante della serietà del dibattito in questione, il Legislatore italiano, dapprima con il decreto Trasparenza e poi con le modifiche del decreto Lavoro, è intervenuto sul punto, delineando una nozione di segreto, ad esclusivo appannaggio giuslavoristico, esclusivamente utilizzabile come limite ai diritti d’informazione individuali e sindacali sulla logica decidendi dei sistemi decisionali e di monitoraggio integralmente automatizzati deputati a intraprendere o a incidere su decisioni gestionali relative al rapporto di lavoro.
Testualmente, l’art. 1 bis, c. 8, d.lgs. 152/1997, introdotto dal decreto Trasparenza (art. 4 d.lgs. 104/2022), poi modificato restrittivamente dal decreto lavoro (art. 26, c. 2 d.l. 48/2023, conv. l. n. 85/2023) delinea una ipotesi di ius tacendi che, dopo le modifiche del 2023, riguarda i «sistemi protetti da segreto (…)» e non più invece le «informazioni» aziendali segrete; se ne ricava che la novella finisce per ridurre l’area del segreto, aumentando la trasparenza, perché il silenzio potrebbe cadere esclusivamente sulle caratteristiche tecniche dei sistemi e non più sui dataset di input e di output che il sistema produce (si pensi all’output di un algoritmo nel delivery che produce informazioni relative alle abitudini alimentari dei consumatori, clusterizzandole per zone della città che sia segreta ex art. 98 c.p.i.).
Lo ius tacendi, inteso quale limite all’approvvigionamento informativo di soggetti che pretendono di esercitare diritti fondamentali resta un unicum scoordinato dal contesto normativo di riferimento. Infatti, né il già citato GDPR (considerando 63 e art. 23), né l’AI Act (regolamento UE n. 2024/1689), né la Direttiva sul lavoro su piattaforma (direttiva UE n. 2024/2831) contengono una simile previsione, limitandosi queste norme a stabilire che tutte le persone coinvolte nel ciclo di vita dei sistemi automatizzati garantiscano la «riservatezza» delle notizie ricevute nello svolgimento della propria attività, pietrificando un diritto al segreto in senso lato e rinviando per la tutela del segreto in senso stretto alla Direttiva Trade secrets.
La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 27 febbraio 2025 (causa C-203/22) segna un punto fermo imprescindibile in questo delicato dibattito. Affermando il diritto degli interessati a conoscere informazioni chiare e comprensibili sulla logica dei sistemi decisionali automatizzati, inclusi i criteri e le modalità del trattamento dei dati, la Corte ha ribadito che la trasparenza algoritmica è un diritto fondamentale. Al contempo, ha riconosciuto che il segreto commerciale, se debitamente provato e delimitato, può costituire un limite legittimo, purché l’accesso a informazioni sensibili e segrete sia comunque garantito attraverso l’intervento delle autorità competenti, chiamate a un rigoroso bilanciamento tra diritti fondamentali e interessi economici.
A fronte di tale chiarimento, risulta evidente l’urgenza di un intervento legislativo coerente e armonico nel nostro ordinamento. L’attuale formulazione dell’art. 1 bis, comma 8, del decreto Trasparenza - pur avendo tentato di circoscrivere l’ambito del segreto alle sole caratteristiche tecniche dei sistemi - resta tuttavia un intervento isolato e scarsamente coordinato con il quadro europeo e con la disciplina generale dei segreti industriali.
Sarebbe dunque auspicabile che il legislatore italiano recepisse esplicitamente la disposizione contenuta nell’art. 3 della Direttiva Trade secrets, prevedendo chiaramente che l’esercizio legittimo del diritto all’informazione e alla consultazione da parte di lavoratori e sindacati non può essere ostacolato da un’invocazione astratta o generica del segreto industriale. Inoltre, andrebbe precisato il ruolo del giudice e delle autorità amministrative competenti nella verifica puntuale e concreta della sussistenza dei requisiti della segretezza, impedendo che l’invocazione del segreto diventi uno strumento discrezionale o addirittura strumentale di difesa preventiva da parte degli utilizzatori dell’intelligenza artificiale.
Soltanto chiarendo definitivamente tali aspetti, sarà possibile assicurare un equilibrio giusto ed efficace tra il diritto alla trasparenza - essenziale per la tutela della dignità, della libertà e della democrazia nei luoghi di lavoro - e la legittima tutela degli interessi economici delle imprese, in un contesto in cui il potere nascosto degli algoritmi non può più sfuggire alla responsabilità del diritto.
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