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Perché il referendum sulla scala mobile merita di essere ricordato. Anche dopo 40 anni

Il referendum che chiama gli italiani ad esprimersi nelle giornate di domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025, in ordine a 5 quesiti che interessano la cittadinanza e il lavoro - licenziamenti, appalti e contratti a termine -, cade nell’anniversario di un altro referendum, che si celebrò il 9 e 10 giugno 1985 e che ebbe come esito la conferma della legge che aveva ridotto la dinamica della scala mobile di tre punti percentuali. La vicenda merita di essere ricordata anche perché ci dà l’immagine di una società e di istituzioni diverse da quelle di oggi e mostra l’importanza che le organizzazioni sindacali hanno avuto quando si sono sapute schierare unitariamente, con coraggio e determinazione. Quello che è successo dopo dimostra che è stata una vittoria per tutto il nostro sistema economico.

La consultazione referendaria che chiama gli italiani ad esprimersi nelle giornate di domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025, in ordine a 5 quesiti che interessano la cittadinanza e il lavoro (ed in particolare i licenziamenti, gli appalti e i contratti a termine), cade nell’anniversario di un altro referendum, che si celebrò esattamente 40 anni fa (e cioè il 9 e 10 giugno 1985) e che ebbe ad oggetto la conferma (o l'abrogazione) della legge che l’anno prima aveva ridotto la dinamica della scala mobile di tre punti percentuali.

Quel referendum, forse anche a ragione del clamore che aveva preceduto la legge, superò largamente il quorum necessario per la validità della consultazione popolare (art. 75 Cost.), facendo registrare un'affluenza alle urne del 77,9%, ma il quesito abrogativo non fu approvato, poiché i votanti, con una larga maggioranza, si espressero contro l'abrogazione (il voto a favore si fermò, infatti, solo al 45,7%).

La vicenda merita di essere ricordata non solo perché lo impone l’anniversario che si compie, ma anche perché ci dà l’immagine di una società e di istituzioni diverse da quelle di oggi, e mostra l’importanza che le organizzazioni sindacali hanno avuto nella storia italiana, quando si sono sapute schierare unitariamente, con coraggio e determinazione.

Il referendum riguardava la scala mobile, cioè un meccanismo automatico di adeguamento dei salari all’inflazione. Questo era stato introdotto prima dalla contrattazione collettiva e poi dalla legge per garantire il potere d’acquisto dei salari, che venivano pattuiti al tavolo delle trattative sindacali ogni tre anni e che soffrivano dell’inatteso incremento dell’inflazione che era stato determinato nel 1973, soprattutto in conseguenza dell’aumento del prezzo del petrolio e del complessivo mutare degli scenari economici internazionali (in particolare, si ricorderà il venir meno della parità aurea del dollaro, che aveva determinato fluttuazioni prima sconosciute sul mercato dei cambi e degli scambi internazionali).

Si trattava di un tema che, quando l’inflazione era giunta a livelli oggi inimmaginabili (collocandosi stabilmente fra il 17 e il 19% nel quadriennio 1974-77), aveva acquisito quasi il monopolio del dibattito nazionale sui temi economici, diffondendo anche negli strati della popolazione meno acculturati uno speciale lessico fatto di termini che appare oramai scomparsi dalla quotidianità (la “contingenza”, la “bilancia dei pagamenti”, la “difesa del salario”), ma che si era formato per rappresentare concetti nuovi e, in qualche caso, prima del tutto ignoti agli stessi economisti.

Inizialmente, il sindacato aveva individuato nella scala mobile un obiettivo capace di aggregare fortemente il consenso sociale (ed ovviamente questa opzione aveva avuto una ricaduta importante anche sul piano elettorale). Tuttavia, grazie ad un economista che aveva studiato negli USA e che portava in Italia un punto di vista innovativo, ci si rese conto, con il passare degli anni, che l’economia aveva saputo trovare un nuovo equilibrio per fronteggiare la crescita del costo dell’energia e che, dunque, non sussistevano vere ragioni perché i livelli dell’inflazione rimanessero così elevati.

Si deve ad Ezio Tarantelli, che cadrà vittima di un attentato terroristico poco prima del voto referendario, e all’intelligenza delle parti sociali e delle istituzioni, guidate al tempo da uomini di non comune livello, se cominciò a farsi strada l’idea che l’inflazione fosse in realtà causata dalle aspettative del mercato, che facevano sì che i prezzi al consumo aumentassero indipendentemente dal crescere dei costi delle materie prime, prendendo la forma di una sorta di difesa preventiva, adottata dai commercianti e dagli altri operatori economici per il timore di dover poi operare in perdita. In questo modo, si finiva per creare un circolo vizioso (la “spirale inflazionistica”) che necessitava di essere interrotto (e “raffreddata” l’inflazione) perché il meccanismo di auto-alimentazione si fermasse.

E fu con grande coraggio che nella giornata del 14 febbraio 1984 (tradizionalmente dedicata a san Valentino), fu sottoscritto dai tre maggiori sindacati italiani, dalle organizzazioni datoriali e dal Governo, un accordo che, per un verso, finì per determinare di lì a poco una riduzione di tre punti della “contingenza”, ma che contemporaneamente introduceva una serie di misure dirette a limitare i costi delle tariffe dei tanti servizi che, al tempo, erano offerti da imprese pubbliche (si pensi ai costi dei trasporti, al costo dell’energia cittadina, alle tariffe dei servizi locali).

Mentre la CGIL firmò comunque il “patto” di concertazione “trilaterale”, seppure al prezzo di far dimettere la sera stessa della sottoscrizione il suo carismatico segretario generale, il PCI considerò come un attacco ai diritti e ai salari dei lavoratori l’accordo raggiunto, e promosse il referendum contro la legge che ne diede nei fatti attuazione.

Malgrado l’apparente controsenso dell’accordo, con il quale si chiedeva, in effetti, ai lavoratori di rinunziare ad un aumento salariale immediato, seppure in vista di futuri benefici, il referendum abrogativo segnò una vittoria netta del Governo di coalizione, a guida socialista, allora in carica, confermando così la vigenza della legge che aveva ridotto la scala mobile.

Fu, in verità, una vittoria per tutto il sistema economico, perché l’ipotesi formulata da Tarantelli era corretta e, a fronte del “raffreddamento” della dinamica salariale, i prezzi cominciarono a rallentare la loro corsa, cosicché qualche anno dopo fu possibile sostituire il meccanismo contrattuale (che nel frattempo aveva conosciuto la disdetta di Confindustria) con un sistema diverso, mirato sulla garanzia di un eventuale recupero a posteriori di aumenti superiori a quelli programmati e concordati ex ante con le forze sociali, grazie ad un nuovo protocollo, sottoscritto nel luglio del 1993 dal Governo Ciampi.

Consolidatasi ormai la via della “concertazione”, con questo nuovo protocollo si seppe dare all’economia italiana un decennio di prosperità e di stabilità, incoraggiando sia la crescita della produttività, sia la partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali, e sperimentando una diffusione della contrattazione “di secondo livello” che l’Italia non ha mai più saputo ripetere da allora.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2025/06/07/referendum-scala-mobile-merita-ricordato-40

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