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Archivio newsSmart working: il controllo a distanza passa da un’adeguata informativa. Anche con l’uso dell’IA
La normativa sui controlli a distanza dei lavoratori in smart working prevede un necessario (e doveroso) bilanciamento tra la necessità (e opportunità) di ridurre alcune rigidità normative connesse con l’uso e la pervasività della tecnologia nello svolgimento della prestazione e la potenziale raccolta di dati da parte del datore di lavoro (anche con l’utilizzo dell’intelligenza artificiale). Principi fondamentali sanciti dallo Statuto dei lavoratori, integrati dalla disciplina GDPR e dagli orientamenti del Garante della Privacy. Pertanto, è importante la corretta gestione tra le parti dell’accordo di lavoro agile e della connessa (essenziale) informativa, fattore di maturità delle organizzazioni. Con l’utilizzo di tutta la tecnologia necessaria a supportare gli obiettivi di produttività, ma nel rispetto della dignità dei collaboratori.
Molto si è scritto nelle ultime settimane su un recente provvedimento del Garante della Privacy, il quale ha sanzionato con una ammenda pari ad euro 50.000 un’Amministrazione pubblica per avere geolocalizzato i dipendenti in smart working, per poi contestare disciplinarmente l’assenza dal luogo di lavoro formalmente dichiarato (provvedimento n. 135 del 13 marzo 2025).
Ascolta il podcast di Roberto Camera Smart working: geolocalizzazione dei dipendenti di default?
Al di là del merito della vicenda - che solleva comunque alcuni validi interrogativi in tema di protezione dei dati, di trasparenza e di minimizzazione del trattamento - quello che emerge tra le righe del provvedimento è un ulteriore fondamentale principio giuridico, figlio della tecnologia e dei tempi in cui viviamo: il reciproco valore della fiducia in ambito contrattuale - intesa come la intendeva il diritto romano, ossia la fides - che non è solo il presupposto sul quale si fonda il rapporto di lavoro (qualunque rapporto di lavoro) come detta il Codice civile all’art. 2094 e agli articoli 2104 e 2105 e anche all’art. 2224, ma il baluardo ed allo stesso tempo un ostacolo alla modernizzazione delle organizzazioni.
Il contratto di lavoro è caratterizzato da un rapporto di scambio: prestazione vs retribuzione. L’apertura dell’ordinamento giuridico verso una più flessibile gestione del rapporto di lavoro come insegna la corretta applicazione della disciplina della para-subordinazione (art. 409 c.p.c. e art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015), la disciplina del lavoro agile (articoli 18-23 L. n. 81/2017) ma anche il più recente istituto del contratto misto introdotto dall’art. 17, legge n. 203/2024 - in parte autonomo e in parte subordinato - indica anche quale valore abbia tra le parti il rapporto fiduciario. Il contratto di lavoro non è da questo punto di vista differente in termini di sinallagmaticità da un qualunque contratto di diritto civile, preordinato a garantire la costruzione tra le parti dell’impianto negoziale diretto alla regolazione ed al reciproco soddisfacimento degli opposti interessi giuridici.
Nel lavoro agile, in particolare, questo aspetto negoziale trova espressione nella possibilità per il lavoratore di ricevere una maggiore attenzione ai propri bisogni di vita (in termini di conciliazione vita-lavoro) e per l’azienda nella possibilità di continuare a ricevere una prestazione di lavoro (che peraltro è retribuita con parametri commisurati al tempo impiegato per la sua esecuzione…) senza dover richiedere necessariamente al lavoratore la presenza fisica nella sede contrattuale di lavoro.
L’apertura da parte dell’ordinamento giuridico (e di buona parte delle aziende) verso il lavoro agile ha fatto sì che cadessero - anche da parte dell’INAIL (si veda in particolare la circolare n. 48/2017) - le principali barriere concettuali sulla possibilità di associare la sicurezza del lavoratore alla sua obbligatoria presenza negli uffici del datore di lavoro. Tanto è vero che la disciplina di riferimento in materia di lavoro agile opportunamente richiama un obbligo di cooperazione da parte del lavoratore: “il lavoratore è tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all'esecuzione della prestazione all'esterno dei locali aziendali” (art. 22, comma 2, legge n. 81/2017).
Il che ci porta dritti al punto più rilevante coinvolto dall’indicato provvedimento del Garante: il regolamento di lavoro agile dell’Amministrazione coinvolta prevedeva, proprio per ragioni di sicurezza, di fare uso di un dispositivo denominato “Time Relax” il cui scopo era quello di verificare - essenzialmente per ragioni di sicurezza - che vi fosse corrispondenza tra il luogo di lavoro da remoto individuato dal lavoratore all’interno dell’accordo di lavoro agile (probabilmente la propria abitazione anche se dal provvedimento non traspare) e quello di effettiva esecuzione della prestazione lavorativa. Tale verifica era affidata ad un dispositivo di geolocalizzazione abbinato all’applicazione che consentiva evidentemente l’identificazione geografica del lavoratore, tramite un controllo a campione fra i lavoratori in regime di lavoro agile.
Va peraltro osservato che il funzionamento tecnico di tale applicazione richiede sempre (come pure nel caso in esame) il consenso da parte del dipendente per potere attivare le modalità di accesso alla posizione. Dato il consenso, solo a quel punto l’App aziendale inizia la ricerca della posizione. Verificata la posizione, il lavoratore può decidere il momento in cui effettuare la timbratura da remoto, selezionando il verso (inizio o termine dell’attività). Solo ed unicamente a questo punto l’App richiede allo smartphone le coordinate geografiche della posizione in cui si trova e le trasmette al sistema di raccolta delle timbrature unitamente al codice identificativo del lavoratore.
Quello che sarebbe emerso dalle indagini successive alla segnalazione - si legge nel provvedimento del Garante - è lo scostamento tra l’obiettivo dichiarato dall’azienda nell’accordo sindacale con il quale è stato approvato il regolamento di lavoro agile (e l’uso dell’indicato dispositivo) e l’adeguata informativa al lavoratore ai sensi dell’art. 13 Reg. UE 2016/679 (GDPR) sulle finalità della raccolta e dell’uso (anche a fini disciplinari,) dei dati rilevabili dallo strumento di lavoro in uso. Elemento questo del tutto mancante nella informativa consegnata ai dipendenti.
Scostamento che, di conseguenza, avrebbe realizzato nei fatti una forma di controllo occulto, vietato dall’art. 4, legge n. 300/1970 anche in relazione agli strumenti di lavoro, quando non direttamente finalizzato da esigenze organizzative, produttive o dalla sicurezza del lavoro, nonché alla protezione dei beni e dei processi aziendali (essenziali a quanto consta nel caso specifico dell’Amministrazione coinvolta).
Ora, va detto che tali finalità avrebbero ben potuto essere assolte, lato azienda, illustrando correttamente in una dettagliata informativa al lavoratore (al di là del solo regolamento di lavoro agile) l’obiettivo cui era preordinata la geolocalizzazione del dipendente, includendovi anche la eventuale finalità disciplinare poi attivata dall’azienda in caso di difformità fra il luogo di lavoro effettivo e quello previsto nel contratto di lavoro agile firmato dal lavoratore. Tanto più che avendo scelto di identificare nell’accordo individuale il luogo prevalentemente prescelto dal lavoratore per lo svolgimento della prestazione lavorativa (probabilmente l’abitazione del lavoratore senza prevedere luoghi alternativi), l’attivazione a campione della possibilità della geolocalizzazione sarebbe stato evento conosciuto ed avrebbe ragionevolmente potuto rispondere a specifiche ragioni di sicurezza e di protezione dei dati dell’Amministrazione. A patto però di un’adeguata informativa anche sulle concrete modalità di raccolta e di uso dei dati, anche a fini disciplinari, come espressamente previsto dall’art. 4 L. n. 300/1970 in relazione all’uso degli strumenti di lavoro (e “Time Relax” in quanto sistema di timbratura da remoto era abbinato agli strumenti di lavoro). Informativa, questa, che mancante, invece, nel caso di specie come rilevato dal Garante, ha portato al sanzionamento dell’azienda. Si noti, peraltro, che è proprio a tali fini che l’art. 4 della L. n. 300/1970 è espressamente richiamato anche dalla disciplina del lavoro agile.
Non dimentichiamo, infatti, che la vigente disciplina di legge in materia di controlli - contenuta nell’art. 4 L. n. 300/1970 - è costruita in termini di un necessario (e doveroso) bilanciamento tra la necessità (e opportunità) di ridurre alcune rigidità normative connesse con l’uso e la pervasività della tecnologia nel normale svolgimento della prestazione lavorativa e la potenziale raccolta di dati da parte del datore di lavoro con modalità tali da determinare forme di controllo occulto o, nei casi peggiori, un uso del potere disciplinare non coerente con i principi fondamentali di tutela non solo della privacy (richiamata peraltro anche nel testo della norma), ma soprattutto della dignità morale del lavoratore e della sua riservatezza. Principi fondamentali sanciti dall’art. 1 e dall’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, ma integrati dalla disciplina in materia di tutela dei dati di cui al Reg. UE n. 679/2016 (GDPR) e dagli orientamenti del Garante della Privacy i quali, peraltro, ammettono entro certi limiti anche i dispositivi di geolocalizzazione - ormai in uso anche per la rilevazione della presenza - purché non comportino forme di controllo occulto, continuo e anelastico oppure, come nel caso specifico, un uso non adeguatamente informato dei dati raccolti. Inoltre, con lo sviluppo dei sistemi di Intelligenza Artificiale i principi di protezione dei dati assurgono oggi anche a principi fondamentali per un uso etico e accorto della tecnologia, anche nel quadro del Regolamento (UE) 2024/1689 (AI Act) (cfr. il mio Editoriale “Controlli difensivi sul luogo di lavoro. Cosa dice la giurisprudenza”).
Come opportunamente segnalato dal Garante della Privacy nel provvedimento n. 135/2025, pure l’eventuale presenza di un accordo con le rappresentanze sindacali (nel caso di specie esistente) in merito all’impiego di un determinato sistema comportante trattamento di dati personali dei lavoratori costituisce condizione necessaria, ma non sempre sufficiente, per assicurare la complessiva liceità del trattamento e il rispetto dei principi di protezione dei dati personali.
A tale più complessa finalità - in ossequio ai principi di liceità, trasparenza e minimizzazione del trattamento previsti dagli artt. 5 e 6 del GDPR - risponde l’informativa ex art. 13 Reg. UE 2016/679, la quale deve essere completa, esaustiva e, soprattutto puntuale in relazione all’identificazione non solo delle finalità del trattamento, ma, soprattutto, dell’uso che verrà fatto dei dati raccolti. E ciò perché i principi fondamentali sanciti dall’art. 4, legge n. 300/1970 diventano oggi sempre più rilevanti e sfidanti dal punto di vista organizzativo in presenza di strumenti e di applicazioni che, potenziate dagli algoritmi, possono determinare forme di controllo occulto, risultando peraltro in contrasto con tale disciplina laddove poi le informazioni acquisite vengano usate anche per finalità disciplinari, senza un’adeguata consapevolezza di ciò da parte del lavoratore.
Il che ci porta a concludere che è dall’accorta e sapiente costruzione e gestione tra le parti del fondamentale (e nuovo) strumento negoziale dell’accordo di lavoro agile e della connessa (essenziale) informativa ex art. 13 GDPR che dipende il valore così come il successo di questa particolare modalità di lavoro, anche nella sua modalità ibrida (parte in sede e parte fuori sede).
La sua corretta gestione costituisce, infatti, un importante fattore di maturità delle organizzazioni (sia da parte dei lavoratori sia da parte dei datori di lavoro). Certamente, avvalendosi di tutta la tecnologia necessaria a supportare gli obiettivi di produttività, ma nel rispetto della dignità dei collaboratori.
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