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Partecipazione dei lavoratori all’attività d’impresa: una legge con poca efficacia giuridica?

Accolta, nel dibattito pubblico, con l’attenzione almeno formale che merita una riforma attuativa dell’art. 46 della Costituzione, la legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese è un testo organico, che ospita pressoché tutte le declinazioni del tema della partecipazione dei lavoratori. Se si misura la sua rilevanza sociale con il metro dell’efficacia giuridica, sembra che essa ne sia pressoché priva: il verbo più ricorrente per descrivere l’empowerment dei soggetti coinvolti nella partecipazione (i lavoratori o i loro rappresentanti) è potere. Il legislatore sembra ignorare che il verbo del diritto oggettivo è dovere, cui corrisponde un diritto di pretendere: in mancanza di ciò, non vi è diritto, ma libertà, già garantita dalla legge. Come accade nei “rinvii impropri” della legge ai contratti collettivi. Ma 2 considerazioni valgono a ridimensionare la critica. Quali?

La legge n. 76/2025, recante disposizioni per la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese, è stata accolta, nel dibattito pubblico, con l’attenzione almeno formale che merita una riforma attuativa dell’art. 46 della Costituzione; ma a dire il vero, con meno interesse di quanto ci si sarebbe potuti attendere.

Eppure non può dirsi che essa manchi di organicità, mostrandosi aperta a ospitare pressoché tutte le declinazioni del tema della partecipazione dei lavoratori: declinazioni che vengono subito presentate nella norma definitoria (art. 2 legge n. 76/2025), e che, razionalizzando, non senza qualche sbavatura, elenca una sovrabbondante pluralità di esperienze di matrice europea e nazionale in materia di diritti di informazione e consultazione, sistemi di organizzazione del lavoro partecipati tramite contrattazione aziendale, azionariato dei dipendenti, corporate governance, articolandoli nella partecipazione gestionale, economica e finanziaria, organizzativa, consultiva”.

In effetti, se si misura la rilevanza sociale di una legge così ambiziosa, col metro dell’efficacia giuridica, sembra che essa sia pressoché priva di effetti giuridici: basti osservare come il verbo più ricorrente per descrivere l’empowerment dei soggetti coinvolti nella partecipazione (i lavoratori o i loro rappresentanti) è “potere” (“gli statuti possono prevedere”, “possono essere previsti piani di partecipazione finanziaria dei lavoratori”, “le aziende possono prevedere nel proprio organico”, “ i rappresentanti dei lavoratori possono essere consultati“, “le aziende possono dare avvio alla definizione congiunta”, ecc.).

Come accade nei “rinvii impropri” della legge ai contratti collettivi, il legislatore sembra ignorare che il verbo del diritto oggettivo è “dovere”, cui corrisponde un diritto di pretendere: in mancanza di ciò, non vi è diritto, ma libertà, già garantita dalla legge.

Tuttavia, due considerazioni valgono a ridimensionare la critica sopra articolata.

La prima considerazione attiene allo stile normativo esibito dall’attuale Governo in materia sociale: uno stile che può riassumersi in un mix di understatement e attendismo nei confronti delle “grandi riforme” (quali il salario minimo, la rappresentanza sindacale, i licenziamenti, i contratti di lavoro), e di pragmatismo anti-intellettuale che si nutre soprattutto di misure di alleggerimento del carico fiscale sul reddito da lavoro dipendente.

La legge risponde a questo cliché solo in parte, perché, mentre prevede “nuove agevolazioni per la partecipazione agli utili” (art. 5 legge n. 76/2025), si candida ad essere considerata come una riforma di ampia portata normativa e culturale.

Tuttavia, se la sua portata culturale è indubbia, trattandosi del primo tentativo organico di dare concretezza legislativa a un’idea non conflittuale delle relazioni industriali nel nostro Paese, d’altro canto, la sua valenza giuridica e operativa effettiva non si lascia apprezzare se non in potenza e nel medio-termine.

Senza entrare nel merito delle singole scelte definitorie e disciplinari operate dal legislatore, sembra utile misurare la portata normativa della legge sulla partecipazione, analizzandola sotto la luce del ruolo attribuito all’autonomia collettiva.

Certo, a chi avrebbe auspicato una visione della partecipazione come forma di democratizzazione dell’agire imprenditoriale e di “diritto” soggettivo, la legge n. 76/2025 non può che apparire deludente, poiché detto obiettivo viene affidato dalla legge, nei suoi snodi essenziali, alla libertà della contrattazione collettiva: e ciò avviene per tutte e quattro le forme di partecipazione previste (gestionale, economica e finanziaria, organizzativa e consultiva).

Così, se la contrattazione di livello nazionale disciplina le procedure per l’individuazione dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione e di sorveglianza, nonché i meccanismi istituzionali della partecipazione organizzativa e della partecipazione consultiva, al livello decentrato sono affidate le intese relative alla possibile distribuzione degli utili nell’ambito della contrattazione di produttività e alla individuazione dei soggetti della partecipazione organizzativa.

A ogni modo, l’art. 46 della Costituzione non impone al legislatore di riconoscere al lavoratore un diritto soggettivo perfetto rispetto al datore di lavoro: circostanza, questa, idonea a sdrammatizzare le perplessità di chi, come Confindustria, ha visto nel rinvio alla contrattazione collettiva il rischio di un inasprimento della conflittualità aziendale; ovvero, come la CGIL, il rischio di una contrapposizione cannibalistica con le forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro.

Vero è che contrattazione e partecipazione non sono in contrapposizione ma sono strategie complementari.

Esemplare in tal senso è il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva in materia di partecipazione gestionale, nella parte in cui viene stabilito che gli statuti possano prevedere tale forma di partecipazione, solo a condizione che essa sia “disciplinata dai contratti collettivi”: previsione, questa, ancora più rilevante di quella che rinvia alla contrattazione collettiva le modalità di individuazione dei rappresentanti dei lavoratori in seno al consiglio di sorveglianza.

In materia di partecipazione organizzativa, si registra un arretramento rispetto alla versione originaria (CISL) del ddl, essendosi superata la previsione per cui le commissioni paritetiche erano istituite dai contratti collettivi: nella versione vigente l’iniziativa per la costituzione delle commissioni è affidata unilateralmente alle aziende. Il che si spiega con la più gelosa custodia delle prerogative aziendali, laddove vengano in rilievo le scelte funzionali al miglioramento e all’innovazione aziendale.

La partecipazione consultiva è l’ambito partecipativo più noto e diffuso nel diritto vigente, soprattutto per impulso del diritto europeo: basti por mente agli obblighi di informazione e consultazione prescritti dalla legge per la gestione di fasi critiche dei rapporti di lavoro (licenziamenti collettivi, cassa integrazione guadagni, trasferimenti di azienda, cessazione di attività produttiva), o alle procedure partecipative per la costituzione dei comitati aziendali europei, o infine, e su un piano generale, all’«istituzione di un quadro generale relativo all'informazione e alla consultazione dei lavoratori», in base al d.lgs. n. 25/2007. L’elemento di novità riguarda, ancora una volta, il ruolo della contrattazione collettiva, che investe tanto l’oggetto e le materia della consultazione, quanto i principali aspetti procedurali.

La legge, infatti, rinvia alla contrattazione collettiva sia la definizione dei contenuti della partecipazione consultiva, sia i principali snodi procedurali, come la composizione delle commissioni, nonché tempi, modalità e contenuti della consultazione.

Nonostante le suesposte considerazioni, resta l’impressione di una non precisa linea di demarcazione funzionale tra contratto collettivo e procedura consultiva: esemplare, in tal senso, è la previsione dell’art. 10, comma 5, legge n. 76/2025, dove si prevede, un pò meccanicamente, che “al termine della procedura di consultazione ..., le aziende possono dare avvio alla definizione congiunta, nell’ambito delle commissioni paritetiche, di piani di miglioramento e di innovazione. Sembra chiaro che il legislatore non alluda a un accordo collettivo, ma semplicemente alla definizione positiva della procedura consultiva; il che non significa che la procedura non possa chiudersi con un accordo collettivo, né, a ben vedere, che non possa considerarsi tale la “definizione congiunta”.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2025/07/05/partecipazione-lavoratori-attivita-impresa-legge-poca-efficacia-giuridica

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