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Archivio newsT.U. assicurazione obbligatoria per infortuni sul lavoro e malattie professionali. 60 anni, e non li dimostra
Ricordo ancora quando da magistrati delle preture penali più grandi, lo scoprimmo: il Testo Unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Quelle due parole “assicurazione obbligatoria” sembravano allontanarci. Ma fummo colpiti dalle parole successive “malattie professionali”. Ci chiedemmo: come mai non ce ne siamo mai occupati? Ma oggi? Il D.P.R. n. 1124/1965 è sempre lì, ma le malattie professionali sono scomparse dalla giurisprudenza penale di questi ultimissimi anni. Il fatto è che, ultimamente, abbiamo appreso che le denunce di malattia professionale sono risultate 88.499, con un aumento del 21,6% rispetto al 2023. È troppo sperare che, oltre a celebrare i 60 anni del D.P.R. n. 1124/1965, si provveda a denunciare le malattie professionali e a celebrare i relativi processi penali?
Ha compiuto 60 anni. Ricordo ancora quando da magistrati delle preture penali più grandi, da Torino a Milano, da Roma a Napoli, lo scoprimmo: il Testo Unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124. Quelle due parole “assicurazione obbligatoria” sembravano allontanarci. Ma fummo colpiti dalle parole successive “malattie professionali”.
Ci chiedemmo: come mai non ce ne siamo mai occupati?
Sul versante penale, le malattie da lavoro sembravano aver interessato teorici e giudici men che mediocremente. Anche a girare e rigirare in tutti i sensi gli archivi della giustizia italiana dall'Unità in poi, non si apriva il minimo spiraglio su un elementare principio giuridico: che la malattia dipendente da colposa esposizione ad agenti nocivi in ambiente di lavoro può integrare un reato - la lesione personale o l'omicidio - previsto e punito nei codici penali in vigore dal 1859 in poi. Lo stupore cedeva il passo allo sgomento nel constatare che i manuali di medicina del lavoro sfoggiavano sempre un'impareggiabile ricchezza di indicazioni, materiali, spunti, preziosi per il magistrato penale non meno che per il sanitario. Sotto una patina d'impassibilità, quasi ogni paragrafo appariva percorso da tumultuosi baleni di criminologia industriale. Con involontaria irruenza, vi esplodeva un mondo ora tragico ora dolente, dove quasi non c'era professione che non pagasse il suo tributo ai guasti nella profilassi igienico-ambientale. Simbolo di tanta febbrile drammaticità sono le pagine che rievocano le affezioni respiratorie. Grandeggiavano silicosi e asbestosi per la vasta serie di attività coinvolte. Seguiva l'asma bronchiale allergica, in agguato contro operai chimici, verniciatori, fornai, mugnai, tipografi, tintori, parrucchieri, falegnami, mobilieri, elettricisti, stampatori, manipolatori di animali, materassai, lavoratori di madreperle, spezie, antibiotici, tè, tabacco, olio di semi. C'era poi la tabella in cui a determinati mestieri corrispondevano specifici danni respiratori: il polmone del fonditore, il polmone dell'agricoltore, il polmone del lavoratore di caffè o malto, il polmone del salatore di formaggi, il polmone dell'irroratore di vigneti, il polmone dell'allevatore di piccioni. Paradigmatica, per citare un altro capitolo a fosche tinte, risultava la poderosa schiera delle neuropatie da metalli: il tremore mercuriale, ad esempio, che impediva ai cappellai lo scrivere, l'infilare un ago, l'abbottonarsi la giacca o che per le violente scosse faceva cadere dal letto i minatori del Monte Amiata; il manganismo cronico, che procurava riso spastico, faccia a maschera e una caratteristica deambulazione a saltelli sulla punta dei piedi, il passo del gallo. Era una bufera d'immagini che non aveva mai scosso i giardini della giustizia penale.
Eppure, proprio nell’art. 139 D.P.R. n. 1124/1965 leggevamo che è obbligatoria per ogni medico, che ne riconosca la esistenza, la denuncia delle malattie professionali all'Ispettorato del lavoro competente per territorio, il quale ne trasmette copia all'Ufficio del medico provinciale. E d’altra parte, l’art. 365 c.p. punisce chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’autorità giudiziaria, o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne. E fu grazie al D.P.R. n. 1124/1935 che decidemmo d’indurre medici e autorità a denunciare le malattie professionali, e scoprimmo che non dovevamo occuparci soltanto di delitti come le liti di cortile o gli assegni a vuoto, o di contravvenzioni stradali. Cominciarono i processi penali. Di lì, senza modelli teorici e giurisprudenziali da emulare, ma con precise norme giuridiche da applicare, partirono esperienze non di rado gracili o maldestre, ma piene di spirito innovatore. E se qualcuno si accontentò d'indagare timidamente casi isolati, altri vollero andar oltre, e approfondire le possibilità di un approccio sistematico e onnicomprensivo. In cima le sordità da rumore e le patologie muscoloscheletriche dell’arto superiore da sforzo ripetuto. E gradualmente si arrivò persino ai tumori professionali, compresi quelli asbesto-correlati. Una nota rivista italiana di medicina del lavoro segnalò che, nel nostro Paese, l’eziologia occupazionale dei tumori era largamente misconosciuta, e invitò ad andare alla ricerca dei tumori professionali perduti negli archivi degli ospedali e dei comuni. E noi ci andammo.
Ma oggi? Il D.P.R. n. 1124/1965 è sempre lì, ma le malattie professionali sono scomparse dalla giurisprudenza penale di questi ultimissimi anni. Persino i tumori asbesto-correlati, ormai confinati a rare eredità di indagini del passato, dal 2016 sotto la mannaia di una Sezione Quarta della Cassazione penale, ormai inesorabile nell’annullamento delle condanne e nella conferma delle assoluzioni. Sono scomparse addirittura le ipoacusie da rumore e le dermatiti. E il D.P.R. n. 1124/1965 è stato dimenticato addirittura sotto il profilo inerente alla colpa. Basti dire che la Sez. IV è arrivata a prosciogliere per difetto di colpa dal reato di omicidio colposo in danno di lavoratori, familiari, residenti, due consiglieri di amministrazione di una società esercente la produzione di manufatti in amianto. E ciò sul presupposto che l’allora vigente art. 21 D.P.R. n. 303/1956 non stabilisse l’obbligo di ridurre la diffusione di polveri nell’ambiente di lavoro con riguardo all’amianto. Eppure, sarebbe bastato tener presente che meritoriamente proprio il nostro D.P.R. n. 1124/1965, nel Capo VIII dedicato ad asbestosi e silicosi, nell’art. 173, stabilisce che “le disposizioni particolari, concernenti le misure di prevenzione e di sicurezza tecniche e profilattiche individuali e collettive e i termini della loro attuazione a seconda della natura e delle modalità delle lavorazioni, sono prescritte da regolamenti speciali, da emanarsi con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, di concerto con il Ministro per la sanità”, mentre il successivo art. 174 prevede che, “in attesa dell'emanazione delle disposizioni particolari di prevenzione e di sicurezza di cui all'articolo precedente, valgono le disposizioni protettive contenute nel regolamento generale per l'igiene del lavoro approvato con decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1956, n. 303”.
Il fatto è che, ultimamente, abbiamo appreso che, anche in sede di Consiglio dei Ministri, il 30 aprile 2025, le denunce di malattia professionale sono risultate 88.499 con un aumento del 21,6% rispetto al 2023.
Solo che nell’anniversario del D.P.R. n. 1124/1965 dobbiamo accontentarci di un’unica sentenza emessa dalla Cassazione, IV Sezione penale, la n. 14799 del 15 aprile 2025.
Quattro responsabili di una grande azienda della distribuzione furono condannati in primo grado per il reato di lesione personale colposa in danno di una dipendente, per aver consentito che venisse adibita costantemente al lavoro notturno, senza tener conto delle sue condizioni di salute e non attivando per lei la sorveglianza sanitaria specifica, con la conseguenza che avevano cagionato, o quantomeno non impedito, l’insorgenza di una malattia professionale (disturbo da panico) nella persona offesa. Per contro, la Corte d’Appello ritenne indimostrato che la genesi della patologia osservata nella vittima fosse correlata all'ambiente lavorativo ed alle mansioni a cui era stata adibita, e osservò che la depressione e lo stress diagnosticato potessero trarre origine anche da altri fattori causali concorrenti e potenzialmente assorbenti, e segnatamente fossero correlati alla fibromialgia dalla quale la parte civile è risultata affetta, predisponente a detti disturbi. In seguito a ricorso proposto soltanto dalla parte civile, la Sez. IVannulla l’assoluzione, beninteso limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente. Rileva, infatti, alla luce delle testimonianze rese dai medici esaminati, che tutti avevano riconosciuto l'esistenza di disturbi di ansia e disturbi di attacchi di panico correlati al vissuto lavorativo della persona offesa, manifestatisi nel periodo in contestazione. E nota che la Corte d’Appello non ha dato conto delle effettive ragioni per quali ha inteso discostarsi dalle giustificazioni addotte dal primo giudice. |
È troppo sperare che, oltre a celebrare i 60 anni del D.P.R. n. 1124/1965, si provveda a denunciare le malattie professionali e a celebrare i relativi processi penali?
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