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Archivio newsL’Europa vieta i prodotti da lavoro forzato. Le imprese devono prepararsi
L’Unione europea ha stabilito il divieto di commercializzare ed esportare prodotti ottenuti con il lavoro forzato. Nel regolamento n. 3015 del 2024, viene prevista la creazione di una rete che, attraverso un portale unico europeo, metta in collegamento le autorità nazionali, chiamate a raccogliere segnalazioni da ogni dove e che ogni Stato, entro il 15 dicembre 2025, debba individuare l’autorità che avrà il compito di condurre indagini per verificare eventuali violazioni e imporre sanzioni. La piena operatività delle norme è prevista il 14 dicembre 2027: quindi, 3 anni di vacatio legis che richiedono un’attenta opera di pianificazione ed organizzazione da parte del Governo per evitare misure affrettate di attuazione, o rincorse tardive per mettersi alla pari con gli altri Stati membri. Spetterà anche alle imprese italiane iniziare a mappare i propri fornitori, per evitare poi di dover far fronte a spiacevoli sorprese.
A dicembre 2024 è stato pubblicato nella Gazzetta dell’Unione Europea l’importante regolamento UE n. 3015 del 27 novembre 2024, che vieta la commercializzazione e l’esportazione dei prodotti ottenuti con il lavoro forzato, cioè grazie a prestazioni rese, secondo una formula internazionalmente accettata che risale al 1930, non in via spontanea, in forza di un regolare contratto, ma anzi estorte sotto minaccia di una punizione.
Si tratta, in altri termini, di quel lavoro, richiesto in molti regimi dittatoriali a donne e minori, ovvero a gruppi etnici minoritari o a migranti irregolari, per la produzione di beni, che però non restano confinati ai mercati locali, ma che valicano i confini degli Stati del “sud del mondo” per essere poi rivenduti nei paesi occidentali, spesso anche come prodotti di alta qualità (soprattutto nel settore tessile, ma anche in quello delle tecnologie o delle fonti energetiche).
Si tratta di una specifica misura che si colloca nell’ambito dell’azione europea a sostegno del Green Deal, venendo a completare la direttiva 2024/1760 (CSDDD), che impone a tutte le imprese europee con oltre mille dipendenti di verificare il rispetto della sostenibilità ambientale e dei diritti umani, lungo tutta la catena produttiva, secondo il modello della due diligence.
Mentre quella direttiva sembra richiedere un apparato di vigilanza fondato su sanzioni di tipo economico, in questo caso, nel vietare l’immissione in commercio, la messa a disposizione e l’esportazione al di fuori dell’UE di prodotti ottenuti con lavoro forzato, si prevede il divieto di un loro qualunque utilizzo commerciale, di modo che, ove si vengano ad individuare all’interno dei confini nazionali beni di questo tipo, si dovrà procedere o, quando possibile, a riciclarli ovvero a renderli inutilizzabili.
Questo significa una perdita economica netta per le imprese italiane che dovessero fare ricorso, anche inconsapevolmente, a beni frutto di lavoro forzato, poiché la sola alternativa alla loro distruzione e, specie per i prodotti deperibili, la donazione a scopo caritativo (artt. 3, 20 e 25 del Regolamento UE n. 3015/2024). Conseguenza questa che discende logicamente dall’esigenza di cancellare forme di sfruttamento estreme dell’essere umano, che trovano ancora larga diffusione nel mondo, tanto da interessare, secondo le premesse del Regolamento, oltre 27 milioni di lavoratori (nel Regno Unito, non a caso, la legislazione corrispondente è identificata come modern slavery Act).
A un tale risultato si può giungere con estrema facilità grazie alla creazione, prevista dal Regolamento n. 3015/2024, di una “rete” che, anche grazie ad un “portale unico” europeo (artt. 6 e 12) metta in collegamento le autorità nazionali, chiamate a raccogliere segnalazioni da ogni dove, dai singoli e dalle imprese, ovvero anche dalle organizzazioni dei lavoratori o di tutela dei diritti civili (art. 13).
Il sistema si fonda così su un meccanismo analogo a quello che, a tutela della salute alimentare, ha istituito (con sede a Parma) l’Autorità alimentare europea e che, in pochi giorni, è in grado di mettere fuori commercio in tutt’Europa prodotti che presentino rischi per la salute dei consumatori. Quindi, nello stesso senso si muove il Regolamento UE n. 3015/2024, che stabilisce che ogni Stato, e fra questi, l’Italia, è chiamato entro il 15 dicembre 2025 ad individuare una “autorità competente”, cioè una articolazione dell’Amministrazione centrale dello Stato (o delle Regioni) che, avvalendosi anche del supporto della Commissione europea, avrà poi il compito di condurre indagini per verificare eventuali violazioni (art. 18), ma soprattutto di imporre le sanzioni di cui sopra si è detto, comunicando anche agli Uffici omologhi di ogni altro Stato membro l’avvenuto ritiro del prodotto dal mercato.
Si tratta, come si può comprendere, di un sistema “di allerta” che funziona in maniera quasi autonoma, rispetto agli apparati pubblici di ogni Paese, venendone di fatto a colmare le omissioni, atteso che, come insegna l’esperienza, la diffusione di beni prodotti con lavoro forzato spesso riguarda una pluralità di mercati. Né il Regolamento fa differenza circa le dimensioni delle imprese chiamate a collaborare, tanto che si chiede ai singoli Stati di adottare misure di formazione a sostegno delle PMI (art. 10).
Il Regolamento è entrato in vigore già il giorno dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta dell’Unione europea, seppure l’applicazione di tutte le sue previsioni sia stata rinviata al 14 dicembre 2027. I tre anni di vacatio legis sono tuttavia finalizzati a predisporre l’apparato amministrativo, chiamato poi ad operare per la creazione della “rete” europea. In questo senso, come sopra si è detto, manca poco a che venga a scadenza il termine concesso ai singoli Stati membri per l’identificazione della “Autorità nazionale competente”. E tanto, anche nella prospettiva di consentire così alla Commissione UE di esercitare i poteri a lei delegati, specie per quanto attiene ai controlli doganali, necessari per meglio attuare gli obiettivi individuati dal Regolamento. In questo senso, si prevede anche che a livello nazionale possano essere coinvolte più amministrazioni, secondo le competenze proprie di ciascuna di esse.
Poiché si tratta di un Regolamento europeo (e cioè di un atto già completo nelle sue previsioni che si impone direttamente agli Stati e ai singoli operatori economici), è solo il Governo ad essere chiamato in causa. Ma deve apparire evidente come questo periodo transitorio (che vede già avvicinarsi la prima scadenza) richiede una attenta opera di pianificazione ed organizzazione, per evitare poi o misure affrettate di attuazione, o rincorse tardive per mettersi a pari con gli altri Stati. Ovviamente, spetterà anche alle imprese italiane, che si approvvigionano di materie prime o semilavorati sui mercati internazionali, iniziare a mappare i propri fornitori, per evitare poi di dover far fronte a spiacevoli sorprese.
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