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Archivio newsLa sostenibilità delle imprese passa anche dalla remunerazione dei lavoratori
Fanno riflettere i dati di una ricerca sui prospetti di stato patrimoniale e conto economico in forma ordinaria di 37.810 società italiane non quotate degli anni 2021-2023. In particolare, l’andamento della retribuzione del lavoro umano pare contraddire nei fatti il principio generale dell’adeguata remunerazione dei fattori produttivi necessaria per dare sostanza al concetto di sostenibilità economica e sociale dell’impresa. Serve una visione più strategica: la remunerazione dei lavoratori deve diventare insieme un costo e un investimento essenziale per il futuro delle imprese. Pertanto, in questo senso, ben venga la legge sulla partecipazione dei lavoratori al capitale, alla gestione e ai risultati dell'impresa che, se applicata estensivamente, permetterebbe sia di distribuire parte delle risorse disponibili, sia di fidelizzare maggiormente i dipendenti più capaci, che saranno sempre più risorsa scarsa in questo prossimo deserto demografico. Il cuore della sostenibilità sociale delle imprese è proprio questo, al di là di tante iniziative più di immagine e formali.
Abbiamo concluso un’impegnativa ricerca sui prospetti di stato patrimoniale e conto economico in forma ordinaria di 37.810 società italiane (SPA e SRL) non quotate degli anni 2021-2023, che esprimono una parte molto cospicua dell’economia italiana. Da tale analisi (disponibile liberamente su www.osservatoriosuibilanci.it) emergono dati interessanti.
Il campione di imprese indagato è molto profittevole, con una costante netta prevalenza di risultati positivi nel triennio anche quando scendono i ricavi: gli utili complessivi passano da 61 miliardi del 2021 agli 85 del 2023 e la percentuale delle imprese in utile è sempre molto alta, 87%. Anche nel 2023, in presenza di sensibile discesa dei ricavi, gli utili sono sempre cresciuti, a livello sia complessivo che mediano. Questi utili sono essenziali soprattutto per autofinanziarsi: il 60% dell’utile è sempre trattenuto a riserva. Non meraviglia quindi che il capitale autogenerato è ampiamente la componente principale di un patrimonio netto che nel triennio è sempre aumentato fino agli 850 miliardi del 2023, con una redditività (ROE) che complessivamente è di circa il 10%. Le imprese sono anche molto solide, o almeno ben più solide patrimonialmente di quanto forse penseremmo comunemente. Sul totale del campione, il patrimonio netto pesa attorno al 44% del totale passivo per tutto il triennio, che rende difficile continuare a ripetere che le imprese italiane sono sottocapitalizzate.
Il capitale investito aumenta sensibilmente nel triennio, ma in prevalenza l’aumento è dato dall’espansione del capitale circolante. L’incremento del capitale è sostenuto per la parte principale dall’aumento del patrimonio netto, mentre il debito finanziario resta stabile nel triennio e il debito commerciale nel 2023 scende un po’ rispetto al 2022.
La struttura e la situazione finanziaria confermano l’impressione di solidità. La posizione finanziaria netta a lungo termine è negativa per il 45% delle imprese e per il 60% quella a breve temine. Il 17% delle imprese non ha debiti finanziari (zero leverage) e la liquidità supera sempre i debiti finanziari a breve termine.
Il capitale tecnico immobilizzato rileva però aumenti più ridotti, inferiori al 3%, ma sembra che la crescita della struttura avvenga prevalentemente per linee esterne, ossia acquisendo partecipazioni di controllo, piuttosto che acquistando direttamente impianti e attrezzature. Le partecipazioni di controllo nel triennio aumentano di 25 miliardi, mentre le immobilizzazioni tecniche aumentano di 21 miliardi. Inoltre, sono sempre oltre 10 mila le imprese che possiedono almeno una partecipazione di controllo. Circa il rapporto tra dinamiche di crescita interne ed esterna torneremo più avanti, ma come aziendalisti dovremmo riflettere meglio sui motivi che rendono sempre più conveniente la crescita per acquisizioni di altre aziende rispetto alla crescita organica.
Alla generazione di reddito pressoché omogenea nel campione non corrisponde però uguale distribuzione, quanto meno in termini mediani. Il 40% delle imprese in utile non distribuisce dividendi e almeno il 75% delle imprese che chiude in utile distribuisce dividendi inferiori a 2.000 euro, ossia ben poca cosa. È un dato che colpisce e che stride con la logica economica - aziendale dell’equa remunerazione dei proprietari per aver conferito i loro capitali.
È questo un primo interrogativo di fondo che merita più mirate e future analisi.
Ci si domanda, infatti, quale sia il ritorno per la proprietà in queste imprese.
Una prima risposta risiede nel fatto che, presumibilmente, molte di queste società sono imprese familiari, dove l’imprenditore, oltre ad aver fornito capitale di apporto, ricopre anche la carica di amministratore, unico o delegato che sia. Si può, quindi, ipotizzare che la remunerazione del capitale avvenga in sostanza assieme alla remunerazione del lavoro direzionale che tale imprenditore svolge sotto forma di compensi agli amministratori e/o di trattamento di fine mandato. Purtroppo, negli schemi di bilancio il costo per compensi all’organo amministrativo non appare e si dovrebbe consultare la nota integrativa per poterlo appurare. Per cui non disponiamo di un riscontro oggettivo per tale ipotesi, per quanto molto fondata a parere di chi scrive.
Ma l’impressione di chi scrive è che incidano due fattori più reconditi.
Il primo è il timore del futuro e la conseguente pressione a volersi tutelare con maggiori risorse senza aumentare la dipendenza dall’esterno, circostanza suffragata da altri riscontri della ricerca, come la riduzione del debito finanziario e la rilevante liquidità trattenuta. I rischi geopolitici, con i conseguenti shock improvvisi sui mercati, fanno prevalere l’incertezza sul futuro. Alla data in cui scriviamo, l’Economic Policy Uncertainty Index, che fotografa la percezione di incertezza esistente nel sistema economico, ha raggiunto livelli mai toccati negli ultimi quarant’anni, dato molto preoccupante, che spetta alla politica in primis fronteggiare.
Un secondo possibile fattore coinvolge variabili dell’equazione personale dell’imprenditore. Trattandosi di imprese non quotate e quindi, per buona parte, con proprietà prevalentemente in mano ad una singola persona o al suo gruppo familiare, siamo sicuri che l’imprenditore, raggiunta una certa ricchezza personale, sia ancora interessato a prelevar risorse dalla società? Potrebbe forse ricercare nell’esercizio dell’impresa motivazioni diverse da quelle descritte nell’art. 2247 c.c., secondo il quale lo scopo della società consiste nella “divisione degli utili”? Questa prospettiva di analisi ci sembra un interessante percorso di ricerca per gli economisti-aziendali, che richiede di dedicare all’imprenditore analoga attenzione a quella dedicata alla sua azienda.
Alcune precauzioni ci sembrano tuttavia necessarie, a parziale correzione di quanto appena scritto, riguardo al processo di determinazione di reddito e capitale.
La prima riguarda il cospicuo peso del capitale da valutazione sul patrimonio netto, conseguente alle rivalutazioni effettuate nel 2020-21. Ci sembra necessario che tali rivalutazioni siano attentamente monitorate per salvaguardare l’attendibilità del dato patrimonio netto.
La seconda precauzione concerne il processo di determinazione del reddito. Ad opinione di chi scrive, il ricorso a politiche di bilancio per mostrare utili è una minaccia ancora esistente. Vi sono casi di “piccolo utile” ben maggiori dei casi di “piccole perdite”, differenza non proporzionale al rapporto tra imprese in utile e imprese in perdita. Se poi si osservano altri sintomi come il notevole ricorso alle capitalizzazioni o il massiccio stanziamento di imposte anticipate, può sorgere la percezione che il risultato dell’esercizio nelle imprese del campione non necessariamente corrisponda al reddito prodotto nell’esercizio. La questione è ben studiata dagli studiosi di ragioneria e coinvolge operativamente l’efficacia dei controlli nelle società non quotate. In questo senso, sarà interessante esaminare i primi risultati dei controlli di qualità del MEF sui revisori delle società non EIP.
I costi per la retribuzione del personale evidenziano nel triennio un livello e una tendenza tali da destare preoccupazioni rispetto al modello di impresa che emerge da questo studio, sottolineando l’urgenza della questione salariale nel nostro Paese. Tra i Paesi a economia avanzata del G20 l’Italia ha subito le peggiori perdite in termini assoluti di potere d’acquisto dei salari a partire dal 2008; nel nostro campione il costo per stipendi mediano unitario raggiunge i 36 mila euro nel 2023 e gli stipendi reali sono in calo per l’intero triennio.
In una prospettiva economico aziendale, questi dati mettono in luce aspetti concreti e tangibili del rapporto tra l’impresa e i suoi lavoratori, che occupano una posizione centrale rispetto agli altri fattori produttivi. L’andamento della retribuzione del lavoro umano pare contraddire nei fatti il principio generale dell’adeguata remunerazione dei fattori produttivi necessaria per il raggiungimento di un equilibrio economico a valere nel tempo. Non sembra, infatti, possibile ridurre l’adeguatezza della retribuzione al fatto che il dipendente prosegue, almeno nel breve termine, la collaborazione con l’impresa. Estendere la prospettiva al medio-lungo termine è indispensabile per dare sostanza al concetto di sostenibilità economica e sociale dell’impresa, ricordando che nel sistema dei portatori di interessi i dipendenti rappresentano stakeholder essenziali per la sopravvivenza e lo sviluppo aziendale.
Questo profilo merita ulteriori approfondimenti e dovrebbe essere un punto chiave nell’informativa di bilancio per la sua rilevanza economica, non solo in una rigida logica di contenimento dei costi, e sociale. Dati sulle retribuzioni per categoria, sul turnover e sulle differenze stipendiali tra generi e ruoli (es. il pay gap tra il CEO e gli altri dipendenti) sono semplici da determinare rispetto a sofisticate analisi di stakeholder engagement, e forse più interessanti e indicativi della sensibilità sociale delle imprese.
L’analisi avvalora l’idea che nel triennio sia stato salvaguardato il numero dei dipendenti più che la loro retribuzione. Il dato critico è che le retribuzioni più basse si concentrano nelle imprese con redditività positiva (ROA entro il 5%), il che solleva l’interrogativo se i risultati economici siano in larga parte il frutto del basso livello stipendiale.
In sintesi, il costo del lavoro sembra percepito meramente come un componente negativo di reddito da minimizzare, con una lettura ancorata a una prospettiva contabile e bilancistica. Questo approccio è del tutto allineato alle reazioni positive dei mercati quando le società quotate (escluse da questo studio) annunciano tagli di personale. A livello nazionale non ci meravigliamo allora che i nostri giovani, specie i più istruiti e talentuosi, vadano a lavorare all’estero. In un’economia avanzata con le tendenze demografiche del nostro Paese, poco attrattivo per i capitali ma soprattutto per i nostri giovani, una visione più strategica suggerirebbe che la remunerazione dei lavoratori è insieme un costo e un investimento essenziale per il futuro delle imprese.
In questo senso, accogliamo con molto favore la recente legge n. 76/2025 - legge sulla partecipazione dei lavoratori al capitale, alla gestione e ai risultati dell'impresa che, se applicata estensivamente, permetterebbe sia di distribuire parte di quel surplus di risorse disponibili sopra descritto, sia di fidelizzare maggiormente i dipendenti più capaci, che sempre più saranno risorsa scarsa in questo prossimo deserto demografico.
Il cuore della sostenibilità sociale delle imprese è proprio questo, al di là di tante iniziative più di immagine e formali.
(*) Ringrazio Francesco Avallone e Paola Ramassa del Dipartimento di Economia presso l’Università degli Studi di Genova per aver contribuito alla stesura dell’Editoriale.
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