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Fuga dei cervelli dall’Italia. Cosa è necessario fare per invertire la rotta?

Le capacità di innovazione richieste alle imprese sono messe a rischio dalla “fuga dei cervelli” dall’Italia, con conseguenze che dal mercato del lavoro si trasferiscono alla sfera sociale e culturale. Vi è, però, un piccolo segnale di un’inversione di tendenza: un aumento del numero di coloro che, dopo un’esperienza all’estero, scelgono di reinvestire le proprie competenze in Italia. Decisione che sembrerebbe incoraggiata dalle politiche di agevolazione fiscale, ma che assicura dinamicità al mercato del lavoro in un momento in cui la flessibilità costituisce il presupposto fondamentale per garantire l’efficace adozione di misure organizzative che assicurino il ricambio generazionale. Presupposto essenziale per garantire vitalità al mercato del lavoro attraverso l’osmosi tra le (nuove) competenze dei giovani e l’esperienza dei più anziani e per dare concretezza alla capacità di innovazione che la tecnologia (soprattutto l’intelligenza artificiale) richiede in modo sempre più insistente. Gli strumenti organizzativi e normativi ci sono già. Cosa manca?

La crisi demografica in cui versa l’Italia è un dato ormai certo. Si fanno meno figli (1,18 come media) e cresce l’età media dei genitori (32 anni); ma anche a livello europeo la situazione non è rosea: 1,38 figli per donna nel 2023 (dati Eurostat). È tutto il vecchio continente ad invecchiare e crescendo il numero degli anziani in rapporto ai nuovi nati si abbassa anche il tasso di sostituzione tra popolazione attiva e non attiva, assai prossimo al rapporto di 1 a 1. In Italia la popolazione in età attiva negli ultimi venti anni - quindi rispetto al 1° gennaio 2005 - è scesa di un milione e 179mila individui, passando dal 66,4% al 63,4% (fonte ISTAT). Un calo stimato in oltre 2,5 milioni entro il 2040, rendendo ogni giovane una risorsa fondamentale da trattenere.

In parallelo, proprio per effetto della costante riduzione delle nascite e della popolazione più giovane, sta progressivamente crescendo anche l’età della popolazione in età attiva - oggi pari a 44,4 anni come media, ma già pari a 50 anni nel settore pubblico - che con l’allungamento dei limiti di età per il pensionamento, è destinata a restare in attività ben oltre i 60 anni (v. Eurofund 2025 “Keeping older workers in the labour force”). Già oggi l’Italia è il paese europeo con la più elevata incidenza di over 50 sul mercato del lavoro (40,6% contro 35,1% della media europea). Non solo, se il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione sono dati comuni a molti paesi europei, l’Italia risulta oggi insieme al Giappone tra i paesi con la più alta percentuale di popolazione con età over 65. I dati mettono in evidenza che la percentuale dei soggetti con almeno 65 anni di età - la fascia dei baby boomers già in pensione o prossimi alla pensione - si stima che passerà da quello che era un valore prossimo al 10% della popolazione totale nel 1951 a uno di poco inferiore al 35% nel 2050.

Speculare a questo scenario è il fenomeno dell’emigrazione giovanile all’estero, spesso ridotto alla formula assai semplicistica della “fuga dei cervelli”, ma caratterizzato in realtà da motivazioni più profonde che determinano come conseguenza una perdita consistente di risorse umane di differente scolarità, non solo universitaria. Con ricadute economiche, sociali e culturali profonde. Se tra il 2003 e il 2023 oltre un milione di italiani ha deciso di trasferirsi all’estero, i dati più recenti confermano e aggravano questa tendenza, seppure mitigati da un lieve aumento dei ritorni. Secondo i dati Istat diffusi ad aprile 2025, il 2024 ha segnato un nuovo picco nelle partenze dei giovani. Oltre 93.000 italiani tra i 18 e i 39 anni hanno, infatti, trasferito la propria residenza fuori dai confini nazionali, un numero che registra un allarmante incremento del 107,2% rispetto al 2014, quando a partire furono in 45.000.

Questo esodo continuo di una fascia demografica cruciale per la vitalità economica e sociale di un paese che sta invecchiando rischia di avere effetti rilevanti anche sulle concrete capacità di innovazione richieste oggi alle imprese, con rilevanti conseguenze che dal mercato del lavoro si trasferiscono alla sfera sociale e culturale. Il dato consolidato del ventennio 2003-2023 mostrava già una perdita netta di competenze, con un terzo degli espatriati nella fascia d’età 25-34 anni e una quota di laureati pari al 38%. Tale perdita ha sicuramente contribuito all’indebolimento del tessuto produttivo, limitando la capacità di innovazione dell’Italia che non sembra saper investire sulle competenze.

Tuttavia, un piccolo segnale in controtendenza emerge dai dati sui rientri disponibili con riguardo al 2024. Su un totale di circa 53.000 rimpatri, quasi 22.000 sono i giovani che hanno fatto ritorno in Italia. Sebbene i rientri restino ancora marginali rispetto al flusso delle partenze, questo fenomeno può rappresentare un potenziale, seppur timido, inizio di un’inversione di tendenza o quantomeno un aumento del numero di coloro che, dopo un’esperienza all’estero, scelgono di reinvestire le proprie competenze in Italia. Una decisione che, volendo essere sinceri, sembrerebbe incoraggiata dalle politiche di agevolazione fiscale, ma che assicura comunque dinamicità al mercato del lavoro in un momento in cui la flessibilità costituisce il presupposto fondamentale per garantire l’efficace adozione di misure organizzative che assicurino il ricambio generazionale. Presupposto essenziale per assicurare vitalità al mercato del lavoro attraverso l’osmosi tra le (nuove) competenze dei giovani e l’esperienza dei più anziani, ma, soprattutto, per dare concretezza alla capacità di innovazione che la tecnologia richiede in modo sempre più insistente.

In un mondo così drasticamente (e drammaticamente) cambiato, nel quale il lavoro ha perso significativamente posizione nella scala dei valori, sarebbe troppo semplicistico affermare che la responsabilità sia solo dei giovani che, non trovando stimoli sufficienti e motivazione anche economica in Italia, si trovano costretti ad emigrare. La responsabilità è di tutti, perché all’interno delle organizzazioni/aziende esistono oggi, affiancate tra loro, quattro (se non cinque) diverse generazioni che vanno tutte ugualmente motivate. È divenuto necessario oggi imparare a gestire meglio il rapporto tra le generazioni, nella consapevolezza che con riferimento alle generazioni più giovani è necessario assicurare la crescita di quelle competenze professionali che si acquisiscono solo con il tempo e l’esperienza dando loro strumenti per restare, mentre con riferimento alle generazioni più anziane vanno azionati rimedi specifici di “invecchiamento attivo” che favoriscano ad esempio il mantenimento volontario in attività anche dopo la pensione. In base agli ultimi dati disponibili (ISTAT, “Condizioni di vita dei pensionati”, 2022), in Italia i pensionati che lavorano sono 444.000 (il 2,75% - contro il 7% in Germania, il 10% in Olanda e Paesi Bassi ed il 20% nei paesi del nord Europa). Il mantenimento in attività garantisce dinamicità al mercato del lavoro e consente anche il trasferimento di conoscenze tra vecchie e nuove generazioni. Oggi quanto mai necessario proprio in ragione delle sfide che derivano dall’introduzione nei processi organizzativi dell’intelligenza artificiale.

L’alfabetizzazione digitale è un fattore divenuto ormai indispensabile per l’accesso al lavoro, ma anche per la permanenza in attività (ricerca INAPP “Digitalizzazione e invecchiamento della forza lavoro nelle piccole e medie imprese italiane”, 2025). Si parla in questo caso di competenze digitali di base e di competenze digitali avanzate, sempre più rilevanti proprio in relazione alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro influenzate dall’intelligenza artificiale. In Italia, la fascia della popolazione in possesso di competenze digitali generali è più bassa rispetto alla media europea (il 45,6% della popolazione in età lavorativa - 16-74 anni - contro una media europea del 53,9%). Ancora più bassa è la percentuale di coloro che sono in possesso di competenze digitali avanzate. Insufficienti sicuramente a colmare la domanda di lavoro. Da uno Studio della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro - Capitale umano e transizione tecnologica, maggio 2024 - emerge come sia di fatto cambiato il fabbisogno di competenze. Quelle digitali sono diventate un requisito indispensabile per il 63,4% delle assunzioni.

La fuga dei giovani è profondamente legata anche a questi fattori, alla crisi demografica e alla stagnazione di alcuni settori e non è un tema marginale, ma un nodo centrale per il futuro economico e sociale del paese. Un problema che richiede azioni concrete, politiche mirate, incentivi all’occupazione giovanile, misure di conciliazione vita-lavoro e strategie per attrarre talenti, valorizzarne le competenze e garantire la sostenibilità del sistema produttivo e del welfare italiano di fronte alle sfide sempre più grandi che ci attendono.

Gli strumenti organizzativi e normativi ci sono già.

Per invertire la rotta ci vuole allora il coraggio di sperimentare nuove forme di organizzazione intergenerazionale.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2025/08/02/fuga-cervelli-italia-necessario-invertire-rotta

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