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Archivio newsWelfare di produttività partecipata: un cambio di paradigma nella mission aziendale
La legge n. 76/2025 rafforza il coinvolgimento dei lavoratori nei processi aziendali attraverso un impianto normativo che, pur lasciando alle imprese la libertà di adesione, promuove strumenti di partecipazione e welfare, con l’obiettivo di favorirne l’estensione anche alle realtà produttive di minori dimensioni. Cambia, pertanto, anche la visione di welfare aziendale: da elemento accessorio o premiale a leva strutturale di coesione interna, inclusione e sostenibilità e strumento di corresponsabilità organizzativa, ancorato a obiettivi condivisi, verificabili e coerenti con la missione aziendale. Parliamo di welfare di produttività partecipata.
Nel 1861, il filosofo ed economista inglese John Stuart Mill, nelle “Considerations on Representative Government”, affermava che “(…) la partecipazione alla gestione comune è la scuola della responsabilità pubblica”. Non si trattava di una semplice riflessione sul governo rappresentativo, ma di una visione profonda della democrazia come esercizio quotidiano: la libertà, per Mill, non si insegna, si pratica, soprattutto nei luoghi in cui si vive e si lavora.
Questa intuizione trova oggi nuova linfa nella legge 15 maggio 2025, n. 76, che dà finalmente attuazione all’art. 46 della Costituzione, riconoscendo ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione, all’organizzazione, ai risultati e alla proprietà delle imprese (art. 1 legge n. 76/2025). La norma non impone un modello uniforme, ma apre a una pluralità di forme: partecipazione gestionale, economica, finanziaria, organizzativa e consultiva (art. 2 legge n. 76/2025). Si delinea così un disegno normativo ampio, volto a rinsaldare l’interazione sistemica tra capitale e lavoro, promuovendo modelli di governance inclusiva e di sostenibilità sociale ed ambientale. Tuttavia, proprio nella sua struttura aperta si annida un limite: la facoltatività. La legge non vincola, ma propone; non impone, ma incentiva. La partecipazione resta affidata alla libera iniziativa delle imprese e alla volontà negoziale delle parti sociali.
Gli statuti societari possono prevedere la presenza dei lavoratori negli organi di sorveglianza (art. 4 legge n. 76/2025), così come le imprese possono attivare piani di azionariato o distribuire utili (art. 5 legge n. 76/2025), ma in assenza di obblighi minimi, l’attuazione del principio costituzionale rischia di rimanere disomogenea e frammentaria. In questo scenario, la contrattazione collettiva assume un ruolo centrale: è il luogo in cui il diritto, come ci ricorda Gino Giugni (“Introduzione allo studio della autonomia collettiva”, 1960), si fa relazione, dove la norma si traduce in prassi condivisa. Alla contrattazione è affidato il compito di definire le modalità concrete di attuazione della partecipazione (art. 6 legge n. 76/2025), ma in assenza di meccanismi di garanzia, tutto dipende dalla maturità delle relazioni industriali e dalla capacità delle parti di costruire fiducia.
Come ha osservato Tiziano Treu (in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona”.IT -386/2019, p. 153), il sistema contrattuale italiano conserva ancora tratti storici che ostacolano uno sviluppo pienamente virtuoso della contrattazione decentrata: una cultura sindacale spesso conflittuale, la frammentazione delle rappresentanze, la preferenza per incrementi salariali fissi rispetto a quelli variabili. Tuttavia, le più recenti evoluzioni normative hanno aperto nuovi spazi all’autonomia contrattuale, oggi chiamata non solo a stipulare, ma a governare i contenuti degli accordi, in coerenza con obiettivi di qualità, efficienza e partecipazione.
In tale prospettiva, il premio di risultato assume una funzione strategica: non più mero incentivo economico, ma strumento di corresponsabilità organizzativa, ancorato a obiettivi condivisi, verificabili e coerenti con la missione aziendale (art. 7 legge n. 76/2025). La sua efficacia dipende dalla capacità delle parti di definire indicatori trasparenti e misurabili, in grado di coniugare performance e sostenibilità. Sebbene tali strumenti non rappresentino una novità assoluta - essendo già previsti in precedenti interventi normativi - la loro riformulazione nel nuovo impianto legislativo ne rafforza la portata sistemica e ne consolida la legittimazione.
In questa prospettiva complessiva la legge sembra delineare un nuovo paradigma di partecipazione organizzativa, in cui il welfare aziendale non è più concepito come elemento accessorio o premiale, ma come leva strutturale di coesione interna, inclusione e sostenibilità.
L’assenza di un vincolo normativo rigido lascia spazio alla responsabilità negoziale e alla capacità delle parti sociali di tradurre i principi in prassi condivise. Al tempo stesso, la legge orienta il sistema verso una integrazione funzionale tra benessere, produttività e qualità del lavoro, delineando un modello partecipativo fondato sulla valorizzazione del capitale umano.
In continuità con questa traiettoria evolutiva, la legge riconosce e promuove quello che, in altra sede, ho definito “welfare di produttività partecipata”, concettualmente distinto dal welfare aziendale in senso proprio (cd. “puro”) per finalità, strumenti e logiche di attuazione. A conferma di tale impostazione, l’art. 5 della legge n. 76/2025 prevede, per l’anno 2025, l’innalzamento a 5.000 euro del limite dell’importo assoggettabile a imposta sostitutiva in caso di distribuzione collettiva degli utili ai lavoratori, subordinata alla stipula di contratti collettivi aziendali o territoriali. Si tratta di una misura che rafforza il nesso tra partecipazione economica e fiscalità incentivante, in piena coerenza con la logica del welfare di produttività partecipata.
Rispetto al welfare aziendale “puro”, quello di produttività partecipata si configura come modalità alternativa di erogazione del premio di risultato, attraverso la sua conversione in beni e servizi di utilità sociale. Non nasce come misura autonoma di benessere, ma come strumento di ottimizzazione del trattamento economico accessorio, con finalità prevalentemente incentivanti. In questa prospettiva, l’art. 7 della legge n. 76/2025 assume un rilievo centrale, poiché introduce una significativa innovazione organizzativa: la previsione di “figure di riferimento” per i piani di welfare, le politiche retributive, la qualità dei luoghi di lavoro, la conciliazione e la genitorialità, nonché di responsabili per la diversità e l’inclusione delle persone con disabilità.
Tali figure, da individuare nell’ambito della contrattazione collettiva o degli assetti organizzativi aziendali, rappresentano un presidio strategico per la promozione di ambienti di lavoro inclusivi, sostenibili e orientati al benessere complessivo delle persone, rafforzando così l’architettura partecipativa del welfare aziendale e la sua integrazione nei processi di governance. Sembra dunque che la legge n. 76/2025 segni un’evoluzione rispetto all’impianto originario, attribuendo al welfare aziendale una funzione più ampia e strutturale, che trascende la logica meramente premiale e si apre a una visione integrata del benessere organizzativo. In tal modo, il welfare diventa parte integrante di una strategia partecipativa e inclusiva, capace di incidere sulla cultura organizzativa e sul senso stesso del lavoro.
Non distante da questa impostazione, Michele Tiraboschi (in “Diritto delle Relazioni industriali”, n. 1, 2020, p. 102) aveva già invitato a considerare il welfare non solo come politica redistributiva, ma, ancora prima, come leva della produttività del lavoro. Una visione che rafforza l’idea di un welfare aziendale non più accessorio, ma strategico, capace di incidere sulla competitività dell’impresa e sulla qualità delle relazioni industriali.
La legge n. 76/2025 non è prescrittiva, ma propositiva: propone un modello di impresa fondato sulla relazione, sulla corresponsabilità, sulla cittadinanza attiva, senza imporlo. Questo è, al tempo stesso, il suo punto di forza e il suo limite.
Il diritto, in questo contesto, non è solo regolazione, ma invito alla trasformazione. E la partecipazione, se vissuta come tale, può diventare la forma più alta di responsabilità democratica. Come ci ricorda John Stuart Mill, la libertà “(…) si apprende esercitandola, ma perché ciò accada, serve una cultura che la renda possibile”.
L’autonomia contrattuale si conferma uno snodo cruciale del sistema delle relazioni industriali, ma la sua efficacia non può essere considerata un dato acquisito. Come ha ancora osservato Treu (p. 154), la contrattazione aziendale, pur mostrando segnali di vitalità, resta limitata nella sua estensione e presenta un impatto diseguale tra settori, territori e imprese.
La cultura sindacale frammentata, la preferenza per modelli retributivi rigidi, la scarsa diffusione di strumenti premianti legati alla produttività, sono tutti fattori che frenano un’evoluzione virtuosa del sistema.
La contrattazione territoriale, meno sviluppata rispetto a quella aziendale, ha dimostrato di poter intercettare e includere anche le realtà produttive prive di rappresentanza interna, estendendo i benefici della partecipazione e del welfare aziendale alle piccole imprese.
È in questo contesto che si colloca la legge n. 76/2025, volta a rafforzare il coinvolgimento dei lavoratori nei processi aziendali attraverso un impianto normativo che, pur lasciando alle imprese la libertà di adesione, promuove strumenti di partecipazione e welfare, con l’obiettivo di favorirne l’estensione anche alle realtà produttive di minori dimensioni.
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