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Lavorare oltre l’età pensionabile: l’accettazione della prestazione rende nullo il licenziamento

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23603 del 2025, è intervenuta in merito al licenziamento per raggiunti limiti di età di un lavoratore del settore del credito che aveva continuato a prestare la propria attività oltre il compimento dei 67 anni, senza che la prestazione fosse stata rifiutata dall’Istituto. I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto illegittimo il licenziamento attribuendo un valore giuridico ai “facta concludentia”, atteso che il dipendente aveva continuato a svolgere la propria attività e la Banca aveva accettato la prestazione.

Appare strano occuparsi della prosecuzione volontaria dell’attività lavorativa nel settore privato fino al compimento dei 70 anni, in un momento in cui dal mondo del lavoro sono sempre più pressanti le richieste di anticipo del pensionamento rispetto ai 67 anni fissati per la fruizione della pensione di vecchiaia.

La ragione per cui se ne parla in questa breve riflessione è data dalla ordinanza della Corte di Cassazione n. 23603 del 20 agosto 2025 che, prendendo lo spunto da quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015, sottolinea e chiarisce alcuni punti fondamentali.

La questione del prolungamento ai 70 anni (ci si riferisce, sempre al settore privato, atteso che nel pubblico sono fatti salvi i limiti previsti dagli specifici ordinamenti che, comunque, dal 1° gennaio 2025, si intendono elevati, ove inferiori, al requisito anagrafico per il raggiungimento della pensione di vecchiaia), può riguardare, senz’altro, alcune categorie ben precise come i giornalisti, il personale apicale del settore del credito e delle assicurazioni, i lavoratori con particolari posizioni di responsabilità nelle aziende del settore commercio e dell’industria.

I contenuti dell’ordinanza n. 23603 del 20 agosto 2025

Ma, andiamo con ordine cercando di riflettere sui contenuti della ordinanza n. 23603/2025 partendo, ovviamente, su ciò che, dieci anni or sono, le Sezioni Unite della Cassazione avevano ben definito, interpretando l’art. 24, comma 4, del D.L. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 214.

Tale disposizione, secondo l’interpretazione fornita, consente di posticipare l’uscita dal lavoro a 70 anni (quindi, ben oltre il termine dei 67 anni) ma tale diritto, pur nel silenzio della norma, non è un diritto soggettivo di natura potestativa rispetto al quale il datore di lavoro non può opporsi in alcun modo: il proseguimento della prestazione non può che essere conseguente ad un accordo raggiunto tra le parti.

Il ragionamento dei giudici di Piazza Cavour parte da un esame sistemico della disposizione che ha come obiettivo principale quello di creare le condizioni per l’equilibrio del sistema previdenziale ma, per quel che riguarda il settore privato il prolungamento del rapporto non può prescindere che da un accordo tra le parti ove le stesse ritengano, congiuntamente, che sussistano le condizioni per la prosecuzione del rapporto.

Su questo principio fissato dalle Sezioni Unite si innestano i contenuti dell’ordinanza n. 23603/2025: facendo propri anche indirizzi perseguiti dai giudici di merito, la Cassazione ha ritenuto che, in mancanza di una specifica forma di accordo derivante dalla norma, la forma possa essere, sostanzialmente, libera, anche orale o per “fatti concludenti”, nel rispetto della libertà di forme consentita dall’ordinamento italiano.

Il caso esaminato con l’ordinanza dello scorso mese di agosto riguardava il licenziamento per raggiunti limiti di età di un lavoratore del settore del credito che aveva continuato a prestare la propria attività oltre il compimento dei 67 anni, senza che la prestazione fosse stata, in un primo momento, rifiutata dall’Istituto.

La Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento, confermando la decisione della Corte di Appello, attribuendo un valore giuridico ai “facta concludentia”, atteso che il dipendente aveva continuato a svolgere la propria attività e la Banca aveva accettato la prestazione. I giudici hanno escluso rilevanza esterna ad una delibera del Consiglio di Amministrazione necessaria per la prosecuzione dell’attività (cosa verificatasi, in precedenza, per un dirigente) atteso che la stessa resta pur sempre un atto interno che, per assumere rilevanza, verso i terzi e, quindi, verso il lavoratore potenzialmente interessato, necessita di “un ulteriore atto formale assunto dal soggetto dotato del potere di rappresentanza” che deve sottoscrivere un accordo con il dipendente.

La prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i liniti del pensionamento di vecchiaia, è protetta, in termine di tutela del posto di lavoro da quanto previsto, in materia di licenziamenti individuali, dall’art. 18 della legge n. 300/1970 (ovviamente, nei termini della riforma del 2012 e delle sentenze in materia della Corte Costituzionale, susseguitesi negli anni): qualora, il lavoratore fosse stato assunto in data successiva al 6 marzo 2015, le tutele sono quelle previste dal D.L.vo n. 23/2015 come riformato dalle numerose decisioni della Consulta.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2025/09/18/lavorare-eta-pensionabile-accettazione-prestazione-rende-nullo-licenziamento

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