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Archivio newsSostenibilità aziendale dichiarata e reale: un confine da presidiare tra business, etica e controllo
La crescente attenzione, normativa e ispettiva, verso la sostenibilità aziendale impone una riflessione sulla necessaria coerenza tra principi etici dichiarati e pratiche reali, soprattutto nella gestione delle filiere di appalto. Un disallineamento può infatti avere ricadute negative in termini di comunicazione, immagine, nonché in ambito giudiziario. Come porre rimedio? In questo scenario entrano in gioco il modello 231 e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive: due strumenti chiave per riportare la responsabilità sociale al centro del business ma anche delle strategie di comunicazione. La coerenza tra sostenibilità dichiarata e reale deve diventare un principio indissolubile.
La crescente attenzione alle tematiche della sostenibilità (parola quantomai usata ed abusata negli ultimi anni), che sta portando all’attuazione ed implementazione di una corposa normativa comunitaria e nazionale incentrata in modo diretto ed indiretto sugli obblighi di rendicontazione scaturenti dal Bilancio di sostenibilità, sta anche generando la crescente attenzione delle autorità ispettive verso la gestione delle filiere degli appalti e dei subappalti. Di quella che oggi costituisce la “catena del valore” di ogni impresa.
Nulla di nuovo da un punto di vista strettamente giuridico, considerata l’importanza che tali fattispecie rivestono da sempre nella gestione del lavoro in appalto (art. 29 D.Lgs. n. 276/2003 e art. 1655 c.c.), soprattutto per alcuni settori come ad esempio quello della logistica. Mentre è nuovo il presupposto dal quale oggi partono questi accertamenti da parte della magistratura e degli organi ispettivi come ormai siamo abituati a leggere sulle pagine della cronaca.
In molti casi l’aspetto più fortemente oggi denunciato è proprio il netto divario emergente tra principi etici e di sostenibilità dichiarati e la concreta realtà dei fatti sottostante al mondo delle imprese. Si tratta da questo punto di vista, di un fenomeno che sta coinvolgendo spesso anche il settore della moda (ma non solo quello ovviamente), da sempre sotto i riflettori a livello globale per importanza di fatturato, glamour e visibilità mediatica.
Prendiamo, ad esempio - tra gli ultimi casi analizzati in sede giudiziaria - il caso di una nota casa di moda produttrice di filati (ma accanto ad essa altri eclatanti casi degli ultimi mesi sono stati portati all’attenzione della magistratura), sottoposta ad amministrazione giudiziaria con decreto del Tribunale di Milano 8 luglio 2025.
Nel provvedimento si legge come lo schema denunciato abbia dato vita ad un “processo di decoupling organizzativo” (letteralmente: "disaccoppiamento"), in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell'organizzazione volta a rispettare le regole istituzionali (codici etici, modelli organizzativi, che però hanno una funzione meramente cosmetica), si sviluppa un'altra struttura, "informale", volta a seguire le regole dell'efficienza e del risultato”.
Tale risultato - si legge ancora nel provvedimento - verrebbe realizzato attraverso il ricorso ad appaltatori e sub-appaltatori che non sono in grado di garantire, su tutta la filiera il rispetto delle norme deputate alla corretta assunzione dei lavoratori ed alla corretta gestione del rapporto di lavoro, alimentando un contesto produttivo nel quale le irregolarità e le pratiche illecite legate al rapporto di lavoro vengono largamente accettate, in quanto considerate addirittura normali.
Il tutto in contrasto con le finalità ed i valori etici dichiarati (e vantati) dalla società nel mercato e nei confronti degli stakeholders.
Appare chiaro in tale contesto il disallineamento esistente tra un certo tipo di comunicazione commerciale ed istituzionale (diciamo così “alta”) - anche attraverso e soprattutto il codice etico - e le ricadute ampiamente negative in termini di comunicazione e di immagine derivanti dall’accertamento di una realtà produttiva di sfruttamento (a detta della magistratura) del tutto diversa da quella dichiarata ed in contrasto con i valori propugnati mediaticamente.
Si tratta di un meccanismo di limitata attenzione ad alcuni ingranaggi di quella catena produttiva che ha portato in passato alcune imprese ad affermarsi in fase iniziale sul mercato (pensiamo ad alcuni grandi nomi del settore dei filati affermatisi negli anni ’80 con il riciclo della lana) per poi consolidare - invece - regole di produzione e di gestione molto rigorose proprio su quella che oggi viene indicata in chiave ESG la “catena del valore”. Regole oggi divenute essenziali in un mercato ormai globale. Un’azienda che oggi non sia in grado di agire in modo coerente con quanto dichiara si trova, infatti, immediatamente compromessa non solo sul piano reputazionale ma anche su quello economico. E ciò proprio per la rilevante attenzione - anche mediatica - ai temi della sostenibilità e dell’ambiente che guida oggi le scelte dei fornitori e dei consumatori.
Al di là degli obiettivi specifici e degli obblighi di rendicontazione di sostenibilità̀ che sono previsti dalla normativa comunitaria e dalla legislazione nazionale (Dir. n. 2013/34/UE come modificata dalla Dir. UE n. 2022/2464 del 14 dicembre 2022 attuata in Italia con il D.Lgs. n. 125/2024; Reg. 2023/2772/UE) misurare, gestire e comunicare l’impatto verso l’esterno di ogni attività organizzata in forma d’impresa costituisce oggi il presupposto per poter parlare in modo concreto di “cultura della responsabilità̀”: qualcosa di più ampio e specifico rispetto alla Responsabilità sociale d’impresa ed ai principi di legalità che caratterizzano l’impianto del D.Lgs. n. 231/2001, secondo un’evoluzione concettuale che integra sostenibilità e strategie di business passando da una logica fondata sulla massimizzazione del valore economico per gli azionisti (shareholder) ad una logica fondata invece sulla costruzione di relazioni durevoli con i diversi portatori di interesse (stakeholder), avendo riguardo a quelli che sono poi divenuti i tre ambiti di riferimento (ESG - Environmental, Social, Governance) di questa materia in ottica di co-creazione di valore economico, sociale, culturale, ambientale.
In questo contesto, un elemento di grande rilevanza pratica è sicuramente il modello 231 (già oggetto di un progetto di riforma) che proprio sulla base di questo rinnovata “cultura della responsabilità” ogni azienda può adottare anche su base volontaria, indipendentemente dal fatto di rientrare o meno nel perimetro di tale disciplina.
Sul punto, la Dir. UE n. 2024/1760 del 13 giugno 2024 relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la Dir. UE n. 2019/1937 e il Reg. UE n. 2023/2859 - Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) il cui termine di attuazione originariamente fissato al 26 luglio 2026 è stato rinviato al 26 luglio 2028 dalla Direttiva UE 2025/794 - è lo strumento che nel quadro della disciplina sul Bilancio di sostenibilità è diretta ad assicurare l’implementazione delle procedure di due diligence destinate a dare evidenza ai processi di trasparenza e sostenibilità, coinvolgendo negli obblighi di reportistica gli ambiti più specifici dei diritti umani e dell’ambiente ed introducendo obblighi di adeguamento dei codici etici elaborati ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001. La scelta di adottare a livello europeo uno strumento normativo specifico incentrato sul “dovere di diligenza” (due diligence) sottolinea proprio la crescente rilevanza di un approccio - multi-stakeholder - che si pone l’obiettivo di “tutelare i diritti umani e l’ambiente (...) alla luce delle crescenti preoccupazioni espresse dai consumatori e dagli investitori in merito a tali questioni” (considerando n. 4 Dir. UE n. 2024/1760).
Ritengo che parlare oggi di sostenibilità per un’impresa voglia dire molte cose, ma che il suo significato più profondo sia legato proprio all’importanza di questi obiettivi portando la responsabilità sociale al centro del proprio business ma anche delle proprie strategie di comunicazione avendo riguardo anche ai temi - divenuti ormai essenziali - del benessere organizzativo.
Perché agire responsabilmente significa, oggi, avere riguardo a tutte le componenti della sostenibilità (ambiente, persone, comportamenti) coltivando anche il benessere della comunità e dell’ecosistema (locale e/o nazionale) di riferimento, con investimenti trasparenti e azioni concrete guidate dalla consapevolezza del proprio ruolo nel contesto locale, nazionale e globale.
Quel più alto principio di libertà di iniziativa economica che si ritrova oggi anche nel nuovo testo dell’art. 41 Cost..
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