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Archivio newsDallo sciopero contrattuale a quello contro la guerra: la metamorfosi del diritto di sciopero
Nella Costituzione repubblicana lo sciopero concorre alla realizzazione della pari dignità tra capitale e lavoro e il diritto di sciopero assurge a strumento di promozione dell’uguaglianza sostanziale. È sulla base di questa concezione, forse ipertrofica, che lo sciopero ha da tempo travalicato i confini del rapporto di lavoro e ha perso la sua natura di strumento fisiologico delle relazioni industriali. Diverse e plurime sono le connotazioni dello sciopero oggi: contrattuale, non contrattuale, economico-politico, politico, sovversivo. Pertanto, avrebbe senso chiedersi come mai si assista, con tendenza crescente, ad una metamorfosi dello sciopero. La risposta è che la metamorfosi dello sciopero è causa ed effetto di una crisi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva, che attribuisce rilievo decrescente alla contrattazione collettiva ed ai salari, e rilievo eccessivo alla legge e alla sfera politica.
Nella Costituzione repubblicana lo sciopero non ha un significato meramente oppositivo e negativo, né persegue scopi rivoluzionari in una logica di lotta di classe; piuttosto, esso concorre alla realizzazione della pari dignità tra capitale e lavoro. Si è detto addirittura che il diritto di sciopero assurge a strumento di promozione dell’uguaglianza sostanziale.
È sulla base di questa concezione, forse ipertrofica, che lo sciopero ha da tempo travalicato i confini del rapporto di lavoro. Lo ha fatto nei servizi pubblici, in cui il soggetto danneggiato dallo sciopero è l’utente più che l’erogatore dei servizi e la forza rivendicativa dei sindacati si scarica pesantemente sui cittadini, mentre può addirittura impattare positivamente sulle imprese erogatrici costrette alla sospensione dei servizi erogati.
Ma non è questo il senso pregnante in cui si dice che lo sciopero oggi ha perso la sua natura di strumento fisiologico delle relazioni industriali. Piuttosto, quel senso pregnante si materializza allorquando lo sciopero si spinge oltre i confini del rapporto di lavoro, rivolgendosi a una pubblica autorità, per attingere finalità non contrattuali, ma che riguardino comunque le condizioni dei lavoratori. Uno sciopero che la dottrina e la stessa prassi sindacale hanno battezzato “sciopero per ragioni economico-politiche, alludendo al fatto che le materie e i diritti coinvolti gravitano nell’ambito del titolo III della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”. Si pensi, tra i tanti esempi, a uno sciopero per il salario minimo, per una riduzione dell’orario di lavoro, contro una riforma fiscale, per la riforma della scuola.
Ma a questo punto il passo verso lo sciopero “puramente politico” (per es., contro una maggioranza politica, contro una determinata politica estera) è stato breve, essendosi in pochi anni compiuta la traversata dallo sciopero contrattuale allo sciopero politico “puro”.
Il limite si estende poi a dismisura quando si sciopera per ragioni di politica estera intrisa di diritti umani, perfino in casi in cui il nostro Paese non sia direttamente coinvolto: si pensi, paradigmaticamente, ad uno sciopero contro la “fame nel mondo”.
Per definizione, si tratta in questi casi di uno sciopero di carattere generale, perché generale è l’interesse attivato dai promotori: e ciò al punto che promotori e scioperanti realizzano una mescolanza che è ideale o ideologica, ma non sociale o sociologica.
È a questa tipologia che può ricondursi, per esempio, lo sciopero generale indetto dalla CGIL e celebrato il 3 ottobre 2025, in difesa di Flotilla per Gaza: un’azione sindacale caratterizzata, si direbbe, dalla convivenza di uno “sciopero-manifestazione con una “manifestazione-sciopero”.
Non tutti sanno, però, che lo sciopero politico, incluso quello “contro la guerra”, è una mera libertà ma non un diritto; in sostanza, e come chiarito dalla Corte costituzionale in plurime, risalenti sentenze (v. Corte costituzionale n. 290/1974), astenersi dal lavoro per uno sciopero politico (non, però, per uno sciopero economico-politico) è un’assenza ingiustificata, quindi un inadempimento contrattuale, teoricamente sanzionabile.
Si tratta, peraltro, di un assunto teorico che non regge di fronte al valore etico di siffatti scioperi, ovvero semplicemente a ragioni di opportunità: sicché mai accade che il datore di lavoro sanzioni disciplinarmente la partecipazione a uno sciopero siffatto.
Per non dire della teorica perseguibilità penale dello sciopero politico “puro”: perseguibilità che non è pressoché mai stata attivata dai nostri giudici penali, e che comunque è spesso paralizzata dall’eccezione, sollevata dagli scioperanti, di scioperare e manifestare in difesa dell’ordine costituzionale.
Simmetricamente, va osservato che anche lo sciopero può rivestire un disvalore sociale tale da giustificare la sua repressione penale: e infatti, delle norme penali del codice Rocco, dedicate al delitto di sciopero, quella che punisce il cd. “sciopero sovversivo” è l’unica sopravvissuta al vaglio di costituzionalità.
Alla luce delle considerazioni svolte, pertanto, avrebbe senso chiedersi come mai si assista, con tendenza crescente, a una metamorfosi dello sciopero.
Un sociologo noterebbe con curiosità la trasformazione dello sciopero generale da lotta sindacale cui si aggregano gli studenti, come negli anni ‘70, a movimento di opinione cui si aggregano i sindacati. In uno scenario simile, non deve stupire che i salari ristagnino: i sindacati trovano più utile rivendicare diritti umani che salari adeguati; terreno sul quale trovano forse più facili consensi “trasversali” rispetto a una contrattazione bread and butter. D’altro canto, la dinamica salariale non è alimentata dalla legge (sul salario minimo), ma dai rinnovi contrattuali e dalla contrattazione decentrata; cioè, ancora una volta, dalle relazioni industriali e non dalle relazioni internazionali.
Per concludere, la “metamorfosi dello sciopero” cui stiamo assistendo negli ultimi anni è causa ed effetto al contempo di una crisi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva, che attribuisce rilievo decrescente alla contrattazione collettiva ed ai salari, e rilievo eccessivo alla legge e alla sfera politica.
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