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Archivio newsConfine tra malattia e disabilità nel comporto: quanto rileva per la tenuta degli obiettivi aziendali
La disciplina del comporto ha la funzione di bilanciare l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro e l’interesse dell’impresa alla continuità e alla prevedibilità dell’organizzazione. Pertanto, in questo contesto, la distinzione tra malattia e disabilità non è un formalismo: serve a decidere quando l’organizzazione debba adattarsi e quando, invece, valgono le regole generali. Tenere separati i due piani evita automatismi, consente scelte motivabili e preserva la prevedibilità gestionale, senza precludere soluzioni inclusive quando la disabilità è effettiva. Una linea di demarcazione essenziale per tutelare le persone e, insieme, per la tenuta degli obiettivi dell’impresa.
Nel mercato del lavoro, segnato da nuove modalità organizzative è utile soffermarsi su come alcuni istituti giuridici debbano e possano restare ancorati alla loro funzione senza che l’obbligo di garantire certe tutele in chiave antidiscriminatoria si traduca in una costrizione priva di utilità nella concreta gestione dell’impresa e del rapporto di lavoro.
Tra questi istituti si colloca il comporto (art. 2110 c.c.) che in tale contesto - anche grazie agli ultimi approdi giurisprudenziali - mantiene la sua funzione principale: garantire di poter conciliare organizzazione del lavoro e tutela (effettiva) del lavoratore.
La distinzione fra malattia e disabilità ne è la chiave d’accesso: solo la seconda attiva l’obbligo di accomodamenti ragionevoli in caso di disabilità del dipendente, secondo l’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, mentre la prima resta nel perimetro delle garanzie ordinarie. È su questa linea, chiara nei principi e dinamica nelle applicazioni, che si gioca oggi l’equilibrio tra organizzazione e inclusione. Perché da questa distinzione discendono ricadute concrete, in termini di attivazione delle tutele di cui al citato art. 5, in termini di gestione delle assenze e, non da ultimo, in termini di verifica della legittimità del licenziamento per superamento del comporto.
La giurisprudenza europea e nazionale più recente confermano che gli accomodamenti spettano solo nei casi di disabilità in senso funzionale; la malattia, anche se protratta, rimane nel quadro delle tutele ordinarie previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Solo quando la patologia si stabilizza in una limitazione duratura che ostacola la piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale si apre, in concreto, il percorso di accomodamento.
In questa cornice si colloca, ad esempio, la recente sentenza della Corte di giustizia UE dell’11 settembre 2025, C-5/24. La Corte ribadisce che il diritto dell’Unione europea non impone un trattamento differenziato automatico per la malattia in quanto tale. Gli accomodamenti ragionevoli scattano solo se la situazione integra una disabilità, secondo la nozione già delineata dalla stessa Corte: una menomazione fisica, mentale o psichica, duratura, che in interazione con barriere impedisce una partecipazione lavorativa su base di uguaglianza. Ciò comporta che gli adattamenti non sono misure astratte o standardizzate, ma devono derivare da una valutazione individuale del caso concreto. La Corte chiarisce anche che strumenti generali di conservazione del posto di lavoro, come - in questo caso - periodi di aspettativa non retribuita previsti dalla contrattazione collettiva di riferimento, possono essere compatibili con le finalità di politica sociale tutelate anche dall’ordinamento europeo, ma non sono “accomodamenti” ai sensi dell’art. 5 Dir. UE 2000/78, perché questi richiedono una valutazione specifica calata sulla situazione del singolo lavoratore e sulle ricadute concrete in relazione ai requisiti essenziali delle mansioni a lui assegnate.
Questa impostazione non svuota il dovere in capo alle aziende di “accomodare” la propria organizzazione in funzione della tutela specifica del soggetto disabile, ma ne delimita con precisione l’ambito. L’accomodamento resta uno strumento operativo per tenere in servizio, quando possibile, un lavoratore disabile con misure proporzionate e sostenibili. Non è un’estensione automatica delle regole sulla conservazione del posto, né un meccanismo che elide di per sé il sistema del comporto. In altri termini, l’equilibrio ricercato è tra un obbligo effettivo di valutazione specifica della situazione e la salvaguardia dei fondamentali principi di governabilità organizzativa dell’azienda.
In questo scenario, può pertanto affermarsi che la disciplina del comporto conserva la propria funzione di bilanciamento tra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e l’interesse dell’impresa alla continuità e alla prevedibilità dell’organizzazione. La giurisprudenza italiana più recente tende a convergere su questi due passaggi: se è provata la disabilità, il datore di lavoro deve attivarsi per esaminare soluzioni ragionevoli, come modifiche delle mansioni, dell’orario o degli strumenti di lavoro, verificando che non comportino un onere sproporzionato; se la disabilità invece non è dimostrata, continua ad applicarsi la disciplina ordinaria del comporto, senza scomputi personalizzati delle assenze dovute a malattia e senza prolungamenti ad hoc (se non quelli già previsti dalla contrattazione collettiva di settore). Questa impostazione consente di tenere insieme certezza delle regole, tutele antidiscriminatorie e obiettivi di inclusione.
| Un esempio utile è la decisione del Tribunale di Rovigo del 27 giugno 2025. Il giudice del lavoro, chiamato qui a valutare un licenziamento per superamento del comporto a seguito di assenze prolungate ben oltre il comporto previsto dal CCNL, ha anticipato alcune considerazioni che si ritrovano nella sentenza della CGUE di settembre 2025, richiamando peraltro proprio gli orientamenti comunitari in materia (tra cui CGUE 11 aprile 2013, C-335/2011 e C-337/2011) e ha chiarito che l’onere di allegare e dimostrare la sussistenza di una disabilità in senso euro-unitario ricade su chi invoca la tutela antidiscriminatoria corrispondente. In mancanza di prova, non sorge un obbligo datoriale di predisporre accomodamenti ragionevoli. Il messaggio che si ricava è semplice: malattia e disabilità non coincidono e l’eventuale percorso di adattamento organizzativo richiede che la seconda sia effettivamente accertata. |
Gli strumenti generali di tutela (come la proroga dei periodi di conservazione del posto o aspettative non retribuite solitamente previsti dalla contrattazione collettiva) possono aiutare a gestire le assenze, ma non possono essere mai considerati in senso proprio come “accomodamenti” ai sensi dell’art. 5 Dir. 2000/78: questi richiedono una valutazione individuale e adattamenti mirati al caso concreto. La distinzione è chiara nei principi, ma rimane dinamica nell’applicazione lasciando aperta la possibilità di effettuare valutazioni via via più complesse man mano che la situazione “personale” del lavoratore evolva: patologie che cronicizzano, una volta accertate possono integrare una disabilità. In tali ipotesi occorre considerare i giudizi del medico competente sull’idoneità e valutare eventuali rimodulazioni organizzative, anche temporanee. Il comporto resta la regola generale; ad esso poi si affianca un dovere di verifica reale quando la disabilità venga poi adeguatamente allegata e provata. Il legislatore, in ambiti specifici (ad es. con la disciplina mirata in materia di patologie oncologiche che interseca diversi ambiti, dal part-time, al lavoro agile, alla disciplina dei permessi), ha previsto tutele rafforzate ma sempre con l’intento di non confondere (com’è giusto che sia anche per chi è malato) la malattia e la disabilità.
Per le imprese è importante sapere di doversi muovere in questi casi con metodo: davanti a indizi di disabilità si verificano le esigenze della mansione, si raccolgono le informazioni attraverso i canali corretti e si apre un confronto con il lavoratore ed il medico competente; poi si valuta, con misura, se gli adattamenti siano efficaci e sostenibili. Se non lo sono, la scelta va motivata; se lo sono, il percorso va documentato.
Questo approccio prudente aiuta nella gestione ed evita effetti non desiderabili. Da un lato, evita di supportare le decisioni - soprattutto le più delicate in presenza di malattie prolungate – con automatismi che rischierebbero di svuotare l’istituto del comporto rendendo incerta (o illegittima) la gestione delle assenze in mancanza di disabilità accertate. Dall’altro, evita incertezze quando la disabilità sia provata e un accomodamento proporzionato sia concretamente praticabile. La giurisprudenza europea e quella nazionale più recente indicano una strada di equilibrio: riconoscere quando la disabilità c’è davvero e attivare gli accomodamenti, e, quando non c’è, applicare con coerenza le regole generali.
La distinzione tra malattia e disabilità non è un formalismo: serve a decidere quando l’organizzazione debba adattarsi e quando, invece, valgano le regole generali. Tenere separati i due piani evita automatismi, consente scelte motivabili e preserva la prevedibilità gestionale, senza precludere soluzioni inclusive quando la disabilità è effettiva. È una linea semplice, ma essenziale per tutelare le persone e, insieme, per la tenuta degli obiettivi dell’impresa.
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